Workaholism: lavorare per vivere o vivere per lavorare?
I workaholics, o “dipendenti dal lavoro”, sono coloro che sviluppano un vero e proprio attaccamento alla propria attività professionale, al punto da rinunciare alle ore di sonno e compromettere i rapporti con amici e famigliari. Un esempio noto di stacanovismo è Elon Musk, amministratore delegato di Tesla, il quale ha recentemente affermato di lavorare 120 ore a settimana, che corrispondono a circa 17 ore al giorno. Quali sono gli effetti di una tale mole di lavoro?
Il lavoro è lo scambio con il quale, prestando le nostre capacità fisiche o intellettuali, otteniamo di ritorno un compenso che ci permette di acquistare beni o servizi a loro volta prodotti dagli sforzi fisici o intellettuali di altre persone. Seppur semplificando e “romanzando” un po’ la definizione, questo è il significato della parola lavoro: un circolo di scambi che, idealmente, crea un benessere condiviso.
Se il lavoro inizia ad essere preponderante nella vita dell’individuo, si può parlare di “dipendenza da lavoro”: quella situazione in cui un lavoratore viene completamente assorbito dalla sfera professionale in maniera del tutto eccessiva e compulsiva, al punto da “classificare” come secondario tutto ciò che non ne fa parte, mettendo a rischio i rapporti sociali e famigliari. Questa “patologia” (nel senso generico del termine, perché la letteratura in materia non ha ancora fornito una definizione esaustiva né le caratteristiche per una sua accurata misurazione) in inglese di traduce con workaholism, parola che deriva da “work”, lavoro, e “-aholism” che non è altro che la parte finale della parola “alcoholism”, ossia alcolizzato.
Questa forma di dipendenza non ha ancora trovato un largo successo nel campo della ricerca e gli studi in merito sono ancora limitati, ma un recente paper pubblicato su “National Center for Biotechnology Information” offre una buona panoramica sulla situazione. [1]
Il documento, rimarcando la mancanza di chiarezza concettuale ed empirica di tale costrutto, permette comunque di individuare possibili fattori scatenanti alla base del workaholism, in particolare:
- Bisogni non soddisfatti: mancanza di relazioni, di autonomia e di competenza.
- Tratti di personalità: nevroticismo, narcisismo, perfezionismo.
- Teorie cognitive: come ad esempio la teoria dell’attribuzione, per la quale gli individui cercano costantemente di ritrovare dei collegamenti di tipo causa-effetto per gli eventi che li circondano anche quando le informazioni sono scarse. Questo porta all’errore fondamentale di attribuzione, ossia la tendenza a sopravvalutare i fattori disposizionali (personalità) delle persone che compiono un’azione ed ignorare invece i fattori ambientali (contesto, situazione).
- Teorie dell’apprendimento: come ad esempio la teoria del rinforzo, per la quale abbiamo maggiori probabilità di ripetere un’azione se a questa seguono rinforzi positivi (esempio: concedersi un gelato ogni volta che facciamo esercizio fisico) cosi come abbiamo meno probabilità di ripetere un’azione se a questa seguono rinforzi negativi (esempio: un genitore che mette in punizione il figlio o la figlia in seguito ad un capriccio).
- Tratti a derivazione culturale: il bisogno culturale appreso di primeggiare nelle competizioni sociali o di raggiungere una forte sicurezza finanziaria, più diffuso nelle culture occidentali rispetto a quelle orientali.
Lavorare in maniera ossessiva, oltre che portare a trascurare altri fattori importanti nella vita come le relazioni, gli hobby, gli sport ecc. comporta anche tutta una serie di “sintomi” (anche in questo caso si ribadisce lo stato embrionale della ricerca, pertanto non si vuole fornire un elenco esaustivo) che possono riguardare:
- Carenza di sonno, difficoltà ad alzarsi e stanchezza cronica
- Conflitti originati tra la dimensione lavorativa e familiare
- Disturbi psicosomatici
- Riduzione della soddisfazione e delle performance lavorative
Con questo breve articolo si è cercato di offrire una sintesi di un fenomeno ancora poco conosciuto e poco studiato, il workaholism. Se, da un lato, il sistema normativo italiano protegge in tal senso i dipendenti imponendo un monte ore massimo di 48 ore a settimana, dall’altro alcuni individui rimangono ancora poco tutelati come gli autonomi e gli smartworkers, quei lavoratori che usufruiscono del lavoro agile. Nonostante questi ultimi dovrebbero avere, sulla carta, il cosiddetto “diritto alla disconnessione” per evitare che l’orario di lavoro superi il monte ore massimo stabilito per legge, anche il garante della privacy si è espresso rimarcando la necessità di separare in maniera più netta gli spazi professionali da quelli privati, al fine di non monitorare costantemente l’attività del lavoratore e di evitare il cosiddetto tecnostress. [2]
Fonti:
- Workaholism: An overview and current status of the research
- Smart working e diritto alla disconnessione: le norme che tutelano i lavoratori
Questo articolo è offerto da: