Foto di Tim Mossholder

ADV

Perché l’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro è così importante

di Davide Maccanò

Le donne percepiscono lo stesso stipendio rispetto agli uomini? Hanno le stesse possibilità di accedere a posizioni direttive nei confronti della controparte maschile? Insomma, qual è la condizione femminile nel mercato del lavoro? Spoiler: non buona. Cerchiamo di entrare più nello specifico mantenendo, dove possibile, una base fattuale.

Quando si parla di pari opportunità nel mondo del lavoro, credo che le argomentazioni a favore di tale orientamento non debbano essere soltanto frutto di un certo senso di “giustizia morale” o di qualche ideologia politica.

L’uguaglianza di genere deve essere un obiettivo fondamentale per il mercato del lavoro moderno (anche) per motivi molto pratici che hanno poco a che vedere con il colore politico, ma che riguardano piuttosto un interesse collettivo. Purtroppo, il termine “obiettivo” non è usato a casaccio: la condizione femminile è lontana dal potersi definire pari a quella maschile.

Il World Economic Forum, una fondazione senza fini di lucro che riporta analisi su diverse tematiche quali salute e ambiente, ha pubblicato recentemente il Global Gender Gap Report 2020, uno studio sulla differenza di genere basato sulle più recenti statistiche internazionali e su una serie di inchieste campionarie. [1]

Il documento prende in considerazione più dimensioni:

  • Partecipazione economica ed opportunità
  • Livello di istruzione
  • Salute
  • Responsabilizzazione politica

Considerando le suddette dimensioni e pesandole per il numero di abitanti dei 153 stati considerati, la differenza di genere complessiva ammonta a 68.6%. Questo significa che, in media, per poter colmare la distanza tra la condizione maschile e quella femminile, occorre un miglioramento del 31.4%. L’indice complessivo è comunque molto influenzato dalla variabilità delle dimensioni considerate e dall’eterogeneità dei Paesi, motivo per cui, in questo articolo, mi concentrerò solo sulla condizione italiana per ciò che riguarda la partecipazione economica e l’opportunità femminile nel lavoro.

Nella dimensione interessata, l’Italia raggiunge una posizione decisamente deludente con un punteggio pari a 0.595 (Dove la massima uguaglianza è 1 e la massima disuguaglianza è 0) posizionandosi 117° su 153, preceduta da Kenya, Giappone e Mauritius.

Se questa posizione può sembrare discutibile, considerando la non brillante reputazione che hanno i Paesi sopracitati per quanto riguarda la condizione femminile, ricordo che si sta considerando un indice che esprime la disuguaglianza di genere e che quindi non dimostra nulla in termini assoluti.

Se cosi fosse, infatti, la classifica finale sarebbe probabilmente molto diversa. Sebbene il documento riporti quanto sia complicato verificare esattamente i salari medi, constatando quindi che tali confronti possono essere solamente stimati, è chiaro che la situazione non sia proprio rosea.

L’Italia, tra l’altro, compare al di sotto della media. [2]

Un ulteriore elemento che conferma la differenza di genere nel mondo del lavoro, consiste nel fatto che nei Paesi OCSE (di cui l’Italia fa parte), le donne sono retribuite, in media, del 13.5% in meno rispetto agli uomini. [3] Sebbene la percentuale sia scesa di un punto percentuale nel giro di 10 anni, è improbabile che la differenza venga colmata nel breve termine.

ADV

Quali sono, dunque, le ragioni per cui annullare il divario di genere nel mondo del lavoro?

Personalmente credo che i motivi possano essere tanti e non esiste elenco che ne uscirebbe completo, per cui riporterò quelli più essenziali per me:

1. Perché l’uguaglianza è un diritto fondamentale, su cui si fonda il nostro sistema democratico, economico e sociale. Se questo viene meno, noi stessi veniamo meno. Questo principio è suggellato nell’Articolo 3 della Costituzione:

Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” [4]

Per uguaglianza non si intende uguaglianza assoluta: si riconosce che le persone abbiano delle differenze non eliminabili, ma questo non porta a un differente riconoscimento da parte dello Stato, anzi: esso si fa garante di limitare tutto ciò che crei iniquità che non derivi da un genuino merito. In poche parole: uguali alla partenza, diversi all’arrivo.   

2. Un mercato del lavoro in cui le donne non hanno le stesse possibilità degli uomini, è un mercato con un potenziale inespresso. Approssimando leggermente i numeri, possiamo assumere che le donne siano circa il 50% della popolazione italiana. Eppure la proporzione non si riflette nel mondo del lavoro: secondo i dati Censis, il tasso di occupazione nella fascia tra i 15 e i 64 anni, ammonta a 49.5% per le donne e 67.6% per gli uomini. Inoltre, le donne manager in Italia sono solo il 27% dei dirigenti. [5] Cosa succede se nella popolazione femminile è più difficile raggiungere posizione lavorative direttive o se esistono delle discriminazioni in termini di assunzioni? Il Paese non lavora al ritmo a cui potenzialmente potrebbe lavorare e le conseguenze sono negative per tutti: meno lavoro significa anche meno tasse, un carico maggiore al sistema di welfare e in generale una riduzione dell’empowerment femminile. È un po’ come se una macchina avesse due ruote funzionanti e altre due a cui invece è applicato un freno: a rimetterci non è solo una delle due metà, ma l’intero sistema nel suo complesso. Certo si potrebbe obiettare sostenendo che se la domanda di lavoro è bassa, la soluzione non può consistere in un aumento dell’offerta. Ma facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro alle donne potrebbe generare anche una nuova domanda, specie se si considera che, nelle scelte universitarie, queste ottengono migliori voti, frequentano più tirocini e finiscono fuori corso in numero minore rispetto agli uomini. [6]

3. Esiste un legame tra partecipazione femminile nel mondo del lavoro e il livello di fecondità. Sebbene questo collegamento non sia univoco e andrebbero considerate molte variabili socio-economiche (istruzione, regione, età), a elevati livelli di partecipazione corrisponde una diminuzione della fecondità. Se, da un lato, questo può avere effetti negativi (si pensi alle pensioni), dall’altro può avere anche degli effetti positivi. Consideriamo che a Marzo 2020, la popolazione mondiale ammonta a 7.7 miliardi di individui. Secondo alcune stime, potremmo raggiungere quasi 11 miliardi entro il 2100.[7] Il numero di abitanti che la Terra può sostenere è logicamente limitato e già adesso consumiamo molte più risorse di quelle che il pianeta riesce a ricreare. Da questo punto di vista, diminuire la fertilità è perlomeno una opzione che dovremmo considerare, anche se questa decisione dovrebbe essere necessariamente accompagnata da una profonda riflessione sul modo in cui le pensioni vengono alimentate.

Come ho cercato di spiegare in questo breve scritto, la condizione femminile è lontana dall’essere equivalente a quella maschile e questo ha conseguenze negative di tipo collettivo. Con questo non voglio in nessun modo dare la colpa a qualcuno ma mi piacerebbe stimolare, nel mio piccolo, una maggiore sensibilità al problema. La differenza di genere, non solo in ambito lavorativo, non è originata da singoli individui, ma fa parte di tutti noi. È un problema sociale e, in quanto tale, deve essere in primo luogo riconosciuto da tutti e solo successivamente affrontato con le corrette contromisure.

Bibliografia:

 

Questo articolo è offerto da:

Davide Maccanò
Studente di Economia in Relazioni di Lavoro
Davide Maccanò è uno studente che, dopo essersi laureato in “Sociologia e Ricerca Sociale”, sta proseguendo i propri studi attraverso il corso di Laurea Magistrale in Economia in Relazioni di Lavoro. In contemporanea allo studio, svolge uno stage come responsabile Risorse Umane presso Adecco. Forte sostenitore della formazione continua, considera la laurea come una condizione sempre più necessaria ma non sufficiente. I suoi interessi principali ruotano intorno al diritto del lavoro e allo sviluppo sostenibile, tematica che ha affrontato durante la tesi di laurea triennale (“Confronto critico tra decrescita felice e sviluppo sostenibile”).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *