Sui comportamenti
Da ragazzini il momento della pagella era come avere tra le mani un giro di carte nel momento in cui chi comanda il gioco le distribuisce. Scoprivi i voti uno ad uno cercando di trovare coerenza tra il tuo percepito e la valutazione che su di te davano i professori. Non era un momento rilassante, diciamolo francamente, c’era una tensione palpabile man mano che ci si avvicinava alla fine del foglio dove, quasi nascosto, si annidava il voto più temuto di tutti, quello in condotta. Non c’era da guadagnarsi la sufficienza come in matematica. Ci voleva di più. Nemmeno il 7 era sufficiente anzi il 7 era quello più bastardo di tutti perché poteva significare vanificare tutti gli altri voti fino a spalancarti la porta verso una sonora bocciatura. L’attenzione sul comportamento era stressata ai massimi livelli e questo approccio punitivo serviva in parte a scoraggiare sul nascere forme di ribellione e tracciava un solco profondissimo tra te e gli altri. Funzionava o meno non saprei dirlo. In quel tempo probabilmente sì, oggi con i discorsi sull’inclusività si tende ad essere più tolleranti perché le variabili da considerare sono decisamente più numerose come è giusto che sia, si tende quasi a giustificare certi comportamenti mettendoli in correlazione al vissuto delle persone. Intento nobilissimo, sia chiaro, ma se non argomentato bene e soprattutto se non accompagnato da un deciso cambio di rotta, rischia di rappresentare una possibile via di fuga. Poi si cresce, si cambia, a volte si resta gli stessi nel senso che ci si scopre inadeguati rispetto ai comportamenti da assumere in certe situazioni. Il mestiere di genitore, ad esempio, è la prova più complessa dove il confine tra l’errore e le buone intenzioni è labile nell’accezione che ne ha dato Ivano Fossati nel suo brano dal titolo proprio “Labile” quando il protagonista, rivolgendosi al suo passato dice “Ho sognato una vita di stagioni sicure, ero il padre e la madre, di azioni, del caso e dell’orgoglio”. Parole che presuppongono una saggezza e una lucidità che non sempre esprimiamo nei comportamenti siano essi sociali che organizzativi.
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Da quando frequento le Organizzazioni mi sono spesso interrogato su come le persone vivano la loro appartenenza. Perché è innegabile che ci sia qualcosa che vada al di là dei semplici obblighi contrattuali, di quell’insieme di regole scritte e di valori, che rappresentano il manifesto dell’Azienda stessa. Qualcosa che ci spinge a pensare all’individuo in maniera univoca senza mettere l’accento sull’essere persona o dipendente in quanto i due aspetti sono sovrapponibili e in qualche modo coincidono. L’idea che noi siamo i comportamenti che esprimiamo richiama una certa idea di coerenza ma non sempre è così. A volte tra individuo e dipendente c’è un solco profondissimo che si è creato nel tempo e nel quale le due dimensioni viaggiano parallele senza incontrarsi mai. Un esercito di Dr.Jekill e Mr.Hide che costringe anche chi si occupa di gestione del personale a doversi misurare con delle contraddizioni evidenti e sulle quali non si indaga mai veramente fino in fondo. Qualcuno potrebbe liquidare la cosa con uno sbrigativo “non ho tempo per indagare su questi aspetti” ed è una risposta che, pur non condivisibile, merita rispetto quanto meno perché richiama una voglia di focalizzarsi su come le persone esprimono comportamenti e su come questi comportamenti siano funzionali agli obiettivi dell’Organizzazione. In un periodo che si caratterizza per una quantità impressionante di informazioni di cui possiamo disporre ci accorgiamo che dei nostri collaboratori e dei nostri colleghi ne sappiamo davvero poco. E questo è un tema con il quale giocoforza dobbiamo confrontarci. Dimentichiamoci per un attimo di Aziende statiche dove l’immobilismo era imperante e il potere delle decisioni era concentrato nelle mani di pochi eletti che attraverso il loro operato condizionavano il funzionamento della macchina organizzativa. Non è questa la sede per giudicare se un tale approccio abbia prodotto più risultati o contribuito a generare disaffezione nei confronti del Management. Quello che possiamo affermare con ragionevole certezza è che scelte anche impopolari venivano edulcorate da una sorta di benessere diffuso che manteneva il livello di ingaggio delle persone su valori non critici. In un contesto come quello ci si focalizzava più sulla parte tecnica che si traduceva in investimento sulle competenze e poco o nulla si faceva per valorizzare la parte comportamentale che veniva considerata come un accessorio, il gadget di cui fare incetta nel sempiterno corso di formazione che non si negava a nessuno. Ora viviamo tempi incerti, per usare un eufemismo. Il benessere diffuso ha lasciato il posto a microconflitti dove nonostante nobili tentativi di promuovere situazioni di Leadership diffusa assistiamo a un’insofferenza di fondo che si traduce in livelli di performance non più in linea con le esigenze di oggi. Paradossalmente abbiamo avuto la dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che la competenza non salva il mondo nè lo rende meno vulnerabile mentre una decisa azione sui comportamenti rappresenta forse il migliore antidoto per una sostenibilità di lungo periodo. Si è in pratica capovolto il paradigma ed ora facciamo una fatica enorme a recuperare il vissuto delle persone, quell’enorme bagaglio informativo che abbiamo sempre considerato non rilevante perchè i driver ai quali dovevamo ispirarci erano altri. Prova evidente è che se oggi chiediamo a un qualsiasi cittadino di una qualunque Organizzazione quali sono i valori della sua Azienda ci troviamo di fronte a imbarazzanti silenzi, occhi alzati al cielo e braccia allargate. Perchè accade tutto questo? Perchè in moltissimi casi manca quella necessaria operazione di scrittura collettiva dei valori che invece vengono calati dall’alto senza nemmeno un confronto costruttivo. Viene vissuto dai più come un qualcosa di avulso e per questo non viene interiorizzato. Continuo quindi a esprimere i miei comportamenti ma non li lego ai valori aziendali e questa asimmetria non produce benessere ma al contario aumenta il divario tra l’essere e il fare che ingessa le Aziende. C’è un esempio di grande attualità che spiega in maniera molto chiara questo aspetto. Pensiamo alla figura del medico. Spesso ci affidiamo a lui perchè lo consideriamo una persona che detiene quel sapere che può addirittura arrivare a salvarci la vita. Ma se lo stesso medico che nel mio inmaginario ho mitizzato si dichiara del tutto contrario, ad esempio, a sottoporre i suoi pazienti al vaccino per combattere la pandemia allora posso arrivare a riconsiderare la sua figura. Lo sto quindi valutando sui suoi comportamenti che in questo caso per il mio tipo di sensibilità, assolutamente soggettiva s’intende, bypassano qualunque tipo di competenza anche la più elevata. Se considero quindi i comportamenti come l’asset più importante attraverso il quale realizzare i miei obiettivi dovrò lavorare per rendere sovrapponibili i valori aziendali con i comportamenti individuali e tutto questo passa per la Narrazione d’Impresa o meglio la Narrazione può diventare il mezzo per raggiungere questo scopo. Mi conforta l’idea di non predicare nel deserto. Me lo dico da solo e forse non dovrei ma poi mi guardo in giro e vedo buone idee di impresa che promuovono un nuovo modo di fare business dove non si parla in maniera esplicita di competenze, di quello che sai fare ma di quello che sei e meglio ancora di quello che vuoi diventare, del contributo personale che vuoi dare nella costruzione di un posto migliore nel quale forse tu non avrai dimora ma altri dopo di te sì. L’idea forte di aver sdoganato la resilienza per far posto all’antifragilità mi fa pensare che siamo sulla strada giusta. Perchè gli errori e i fallimenti sono il materiale di risulta sul quale edificare un nuovo modello sociale dove la gratitudine, il rispetto e l’inclusione rappresentano solide fondamenta. E di stabilità. di questi tempi, c’è un gran bisogno.
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