Smetti di sopportarti, e vai!
“Ci pensi già da un po’
Per alcuni questa è vita, beh, per me no
Chiudi gli occhi e vai, vai…”
Willie Peyote
Un urlo ti sveglia, è il tuo, guardi l’ora sul soffitto e una manciata di minuti ti separa dalle quattro di mattina. Sei sudato, le mani tremano un po’, te ne accorgi prendendo il cell per controllare se ci sono messaggi, mail, comunicazioni da un’altra galassia, segnali dall’oltretomba. Sei vivo ma per quanto ancora? Aspetti il giorno che tutto questo finirà anche se ti manca il pathos, quell’elemento di imprevedibilità che si traduce in un finale ad effetto. Invece tu il finale lo conosci bene. C’è il tuo bel faccione sullo schermo, in realtà hai una brutta cera ma pensi sia dovuto al fatto che dormi poco e male e non ricordi nemmeno l’ultima volta che hai chiuso gli occhi e staccato il cervello per sette ore di fila. Sei in riunione virtuale insieme ad altri dieci, non ricordi nemmeno il perchè ti sei collegato e questo te la dice lunga sull’utilità percepita di quell’inutile parlarsi addosso. La domanda arriva verso la fine. C’è un silenzio imbarazzante ma tu la risposta ce l’hai, l’hai sempre avuta ma qualcosa ti blocca e non riesci ad articolare nemmeno un suono gutturale o un cenno del capo. Niente, rimani immobile e dopo qualche secondo la testa si piega da un lato. Uno stagista accenna un timido “Sarà caduto” che gli altri partecipanti interpretano come un problema tecnico, una temporanea mancanza di connessione, e la riunione continua nell’indifferenza generale. Si accorgeranno della tua scomparsa quando non vedranno più la spunta blu dei messaggi di WhatsApp che ti hanno sparato a raffica, tutto il giorno a tutte le ore del giorno e alle quali non rispondere è più di un insulto, è un’offesa alla loro intelligenza. La tua non saprei o meglio lo so, l’hai barattata un pomeriggio che la mandava giù a secchiate e seguivi le goccioline di pioggia e il loro movimento irregolare a infrangersi alla base della finestra, in quella terra di nessuno dove il vetro sembra scomparire come inghiottitto dall’infisso. Eri bambino, sulla pelle il sapore del sale, e c’era un’immagine che ti metteva tristezza, il momento esatto in cui l’onda dopo il suo infinito viaggiare diventa schiuma e muore. Due momenti che hanno stimolato in te il senso della scoperta. Comprendere quello che l’occhio nudo non riesce a percepire e provare a immaginarlo, disegnare il futuro. Le quattro di mattina sono passate da qualche minuto e il circuito delle abitudini lo hai completato come da manuale ma di tornare a dormire non se ne parla. Ti bruciano gli occhi e accantoni l’idea di leggere qualche pagina di un libro rimasto a svernare sul comodino. Ci sarebbero gli album in vinile da ordinare secondo un criterio che abbia un minimo di logica. Ne prendi uno a caso e l’immagine eterea e quasi psichedelica di David Bowie ti viene in soccorso. Heroes. Dare un volto e una voce a un esercito di eroi silenziosi è operazione al limite dell’impossibile eppure in mezzo a quell’esercito schierato ci sei anche tu, magari nelle retrovie, nemmeno ti si vede preso come sei a esercitare l’arte che meglio ti riesce, quella di nasconderti, da te stesso e dagli altri pensando che sparire sia la conquista più grande che tu possa ottenere. Come fingersi morto in un campo di battaglia. Ed è quello che facciamo tutti in maniera ricorrente: ci nascondiamo per non affrontare una realtà dove la competizione è feroce, nel dubbio scegliamo di non schierarci e di non combattere. In fondo recitare il ruolo di spettatore ha i suoi vantaggi, specie se fai scorta di pop-corn da sgranocchiare. Questo vale nella vita di tutti i giorni così come nelle Organizzazioni, anzi è proprio dentro le Organizzazioni che è facile ottenere una sorta di visto di conformità, la cui traduzione è proprio letterale nel senso che ti sei conformato e ti hanno visto. Loro vedono tutto, anche ad occhi chiusi. Ci si conforma e questa cosa è devastante perchè smettiamo di essere noi stessi e ragioniamo per un fine utilitaristico. Se il non fare ci porta dei vantaggi che significa anche semplicemente rimanere dove sto evitando lo stress da cambiamento perchè non perseguirlo? Per questo non amiamo fermarci. Per quella sensazione di movimento che alimenta il nostro ego che di smisurato ha poco se non l’ansia che produciamo correndo a testa bassa nella ruota dell’eterno movimento immobile. Criceti senza nemmeno avere il phisique du role e come criceti pranziamo con un’insalata al retrogusto di plastica davanti al PC come ipnotizzati dall’incantatore di turno. Non credo al lieto fine delle favole ma credo al gesto salvifico di chi spinge il pulsante rosso per prenotare la prossima fermata. Destinazione sconosciuta, in fondo il nostro più grande paradosso è quello di caricarci di aspettative troppo grandi, di avere una mappa sempre disponibile per poterci orientare di continuo. Umberto Eco nel suo “Il pendolo di Foucalt” prende a prestito una citazione di un poeta Polacco – Stanislaw Jerzy Lec – affermando che “non bisogna aspettarsi troppo dalla fine del mondo”. Ogni tanto lo ripeto a me stesso, a volte funziona e riporta tutto nella corretta dimensione che è quella terrena, altre ancora non è sufficiente e la sensazione di non avere più terra sotto i piedi agita i miei pensieri. Ho scoperto che allenarsi alla resa ha gli stessi meccanismi premianti di chi si allena per conquistare un nuovo traguardo. Anzi, a dirla tutta, per fermarsi occorre maggiore consapevolezza e coraggio, è una disciplina che implica un certo rigore e una capacità di guardarsi dentro che non tutti hanno. “Contro il logorio della vita moderna!” recitava un spot pubblicitario degli anni 60 che reclamizzava un amaro a base di carciofo. Il Visual Storytelling di quel breve frammento poneva il protagonista – Ernesto Calindri – al centro di un trafficatissimo via vai di auto mentre sorseggiava il suo liquore con calma serafica. Sono passati 50 anni e siamo passati dal logorio della vita moderna a logorarci l’esistenza affogando in un mare di abitudini. L’espressione “abbiamo sempre fatto così” sembra diventata la giustificazione che ci facevamo da soli quando si decideva di marinare la scuola, il registro elettronico era ancora un’utopia alla pari dell’isola che non c’è. Uno dei motivi anzi il vero motivo per cui non abbiamo il coraggio di trasformare la resa in un’esperienza è che pensiamo alla resa come un momento di fragilità e di debolezza. Ci preoccupa più la reazione degli altri che la nostra. Avere paura è umano e la paura di essere etichettati e quindi emarginati ci blocca. Ci paralizza non tanto l’errore in sè ma le sue conseguenze. La stessa parola errore deriva dal verbo errare che rappresenta anche la dimensione del vagare, del perdersi. L’errore è quindi una scoperta che ci apre nuovi orizzonti se abbiamo la sensibilità di saperli guardare con occhi diversi. Le stelle – diceva Walter Benjamin – si vedono meglio socchiudendo gli occhi invece di spalancarli e per farlo occorre fermarsi e focalizzarsi sui dettagli che spesso trascuriamo per rincorrere la visione d’insieme, altra entità soprannaturale come può esserlo il Legislatore o la Pubblica Amministrazione. In fondo rimane un problema di consapevolezza che a volte accende la lampadina delle nostre decisioni. In pochi riescono, solo quelli capaci di dare un nome al vento e a capire da quale parte del mondo proviene mentre la maggioranza si copre la faccia per proteggersi. Quelli che pensano di vivere – ci ricorda una canzone degli Afterhours – indossano il vuoto con classe ma alla fine è tutto ciò che avranno mentre tu, guardando la pioggia che viene giù irregolare sul vetro, hai deciso di smettere di sopportarti e di andare alla conquista di un mondo dove quelli come te li chiamano temerari.
Credits:
- Afterhours – Ci sono molti modi
- Walter Benjamin – Angelus Novus
- David Bowie – Heroes
- Umberto Eco – Il pendolo di Foucalt
- Willie Peyote – Che bella giornata
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