Le parole sono importanti.
Smart working, teleworking, south working: saperli distinguere
Alessandro Reati, Psicologo del lavoro e consulente direzionale, ha evidenziato in un articolo del Giugno 2018 la tendenza di diverse multinazionali in Italia a preferire l’utilizzo di termini anglofoni per definire concetti che fino a qualche anno si adoperavano in lingua italiana. In altre parole, molte compagnie si sono purtroppo abituate a “cambiare la forma per inseguire le mode, lasciando invariata la sostanza” anche nel caso in cui la nostra lingua preveda la perfetta traduzione.
Ne deriva un “senso di smarrimento che i lavoratori avvertono e che nasce quando non comprendono cosa realmente l’azienda stia proponendo loro.”
Tra le espressioni del momento più impiegate in lingua straniera ci sono senza dubbio quelle di “smart working”, “teleworking” e il neonato “south working”.
Ma gli italiani sanno realmente di cosa si tratta?
Lavoro agile e telelavoro: cosa cambia
Per quanto presentino elementi comuni, smart working e teleworking non sono sinonimi.
Nella normativa in parentesi (L. 81/2017 – Capo II – Art. 18) lo smart working (meglio conosciuto come «agile working», «lavoro flessibile» o «lavoro agile») è descritto come “una modalità di lavoro stabilita tramite accordo tra le parti […] e senza vincoli precisi di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività di lavoro”.
La prosecuzione del rapporto di lavoro in regime di smart working va inoltre comunicata all’INPS entro 5 giorni dall’inizio, mediante procedura semplificata sul portale Cliclavoro.
Durante l’attività lavorativa il datore di lavoro è altresì responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore.
Al fine di comprendere cosa, in particolare, distingue le due “forme di organizzazione del lavoro subordinato” è di fondamentale importanza identificare le peculiarità dello smart working:
- accordo scritto tra le parti. Affinché si possa usufruire della possibilità di lavorare in modalità “agile working”, è essenziale che lavoratore e datore di lavoro sottoscrivano un accordo interno. Tuttavia, l’entrata in vigore del DPCM 23 Febbraio 2020 ha svincolato le parti da questa ulteriore incombenza al fine evitare al lavoratore inutili rischi e velocizzarne il ricorso;
- strumenti tecnologici e garanzia di funzionamento. Lo smart working non sarebbe stato possibile in Italia se multinazionali e PMI non avessero accettato il “guanto di sfida” lanciatogli dalla Digital trasformation in atto. In particolare, presupposto affinché un dipendente possa lavorare da remoto è la concreta possibilità di usufruire di strumenti e tecnologie varie. Tra questi è fondamentale ricordare non solo pc portatili, computer trasportabili e monitor ma anche tools, calcolatrici, altri videoterminali e tutti quegli “elementi” (VPN, tocken, software per la gestione delle password, antivirus, aggiornamenti vari, ecc..) che il datore di lavoro mette a disposizione del prestatore di lavoro per garantire sicurezza informatica e protezione dei dati sensibili anche da casa. In legislatore, con circolare 1/2020 ha inoltre consentito ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni l’utilizzo di dispositivi elettronici personali al fine di dare continuità al loro operato (business continuity) data la pandemia in atto;
- sicurezza del lavoratore. Il datore di lavoro, anche in caso di lavoro-smart, non è esonerato dal salvaguardare lo stato di salute del dipendente nonché intervenire tempestivamente mediante le consuete comunicazioni agli Enti qualora necessario. Secondo Pasquale Staropoli, giurista del lavoro della Fondazione studi dei Consulenti del lavoro, anche in presenza di un quadro clinico conclamato di positività (al coronavirus) e quindi di una disposizione medica, il lavoratore gode del diritto alla malattia, inclusi i benefeci che questa comporta: astensione dal lavoro e corresponsione delle indennità previdenziali previste. Ciò riguarda anche il caso in cui il dipendente risulti asintomatico in virtù del fatto che il suo stato di salute (il cui responsabile continua ad essere il datore di lavoro!) potrebbe aggravarsi;
- nessun vincolo di luogo di lavoro. A differenza che nel telelavoro, la sede da cui lo smart working è effettuato non deve necessariamente corrispondere al domicilio e/o la residenza del dipendente.
Al fine di comprendere appieno il significato di quanto appena evidenziato, è di primaria necessità definire il telelavoro.
Con l’espressione telelavoro, come suggerisce la parola stessa, si intende un lavoro che si svolge a distanza rispetto alla sede centrale. Esso si è diffuso negli Stati Uniti a partire dal 1973. Lo shock petrolifero di quegli anni, infatti, si stava tramutando in un aumento esorbitante dei prezzi e in una drastica riduzione della disponibilità di petrolio. Sorse così l’idea di ridurre gli spostamenti tramite mezzi che si servono del petrolio e la convinzione che il mercato del lavoro potesse rifiorire trasportando dati piuttosto che persone.
In Italia il telelavoro è regolamentato dall’accordo interconfederale del 9 Luglio 2004 (Filcams CGIL, 2004), che lo definisce come una “una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa”.
Ne deriva che la caratteristica che più di tutte distingue il lavoro agile dal telelavoro è appunto quella del mancato vincolo di luogo. In particolare, l’indirizzo del luogo da cui si lavora va obbligatoriamente comunicato all’INPS in caso di teleworking e non va mai comunicato in caso di smart working. In aggiunta, la sede del lavoro agile non deve necessariamente corrispondere al domicilio e/o alla residenza del dipendente e può essere variata più volte.
South working: ripensare il sud Italia in direzione “smart city”.
Prima della morsa del Corona, solo il 15% dei lavoratori lavorava da casa occasionalmente o in modo stabile. Contemporaneamente il numero raggiungeva il 37% in Paesi come la Svezia e i Paesi Bassi. A distanza di pochi mesi e secondo l’Ansa, lo smart working nel Belpaese è diventato giocoforza l’unico modo per far sopravvivere molte imprese in epoca di lockdown. Eppure c’è un’altra espressione, rigorosamente anglofona, che sempre più spesso anima il web negli ultimi tempi: south working. Il “south working” (o “lavoro dal Sud Italia”) consiste nella declinazione più recente del lavoro agile nonché nell’imperdibile possibilità di “svolgere il lavoro in modalità smart al Nord restando al Sud”. Tutto è cominciato all’inizio della pandemia quando molti meridionali, studenti e lavoratori, impauriti dal contagio che ha colpito in particolar modo Milano e provincia, si sono affrettati nel tornare nelle loro città originarie al Sud Italia disdicendo in moltissimi casi anche gli affitti. Tali movimenti, inizialmente considerati come un irresponsabile tentativo di evadere le limitazione soprattutto da parte dei più giovani, potrebbero tuttavia aprire la strada verso la costruzione di un nuovo Sud, questa volta svincolato dall’ emarginazione e dello spopolamento.
A questo punto a diventare “smart” non sarebbero soltanto il lavoro (smart working), le selezioni del personale (smart recruiting) e le formazioni dei professionisti (smart learning) ma anche le città (smart cities), non più prede e vittime eterne dell’inquinamento dovuto al traffico per i continui spostamenti con i mezzi ma culla di profumi ormai dimenticati. Le persone, lavorando dalla propria città natia, avrebbero modo di ripensare i propri affetti e disporre della possibilità concreta di prendersi cura dei propri cari una volta divenuti non più autosufficienti.
Al di là della questione linguistica, Lavorare da casa (che sia “smart”, “tele” o “south”!) fa bene a te, a chi ti sta intorno, all’economia e all’ambiente.
Bibliografia consigliata:
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