20
Quando il lavoro compromette la salute mentale
Analisi focalizzata sui giovani ma un Work Life Balance inadeguato brucia le persone: ecco un messaggio da tenere a mente.
Sono sempre di più i casi in cui il lavoro compromette la salute mentale.
Le motivazioni sono varie, dal fatto che una volta problemi come lo stress, l’ansia o la depressione non venivano nemmeno sostanzialmente considerati (nessuno stava a casa dal lavoro perché il medico lo riteneva stressato) fino al forte cambiamento dello stile lavorativo.
Ad oggi, infatti, una persona impiegata nella stessa azienda viene spesso a considerata un concorrente più che un collega, con tutto ciò che ne consegue a livello di clima lavorativo e ripercussioni psicologiche: si tende a non aiutare nessuno, perché si è già parecchio indaffarati a raggiungere i propri obiettivi, e si ha paura a chiedere aiuto, perché si crede di venir reputati “deboli”, “scarsi” o “incompetenti” e perché si teme di essere sottoposti a tranelli tramite i quali i colleghi-concorrenti suggeriscono apposta soluzioni errate per mettervi in cattiva luce.
Uno stress psicologico che si ripercuote nella salute e, quindi, nella vita quotidiana.
Se consideriamo che passiamo almeno un terzo della nostra giornata al lavoro, capite bene che se quelle 8 ore si svolgono in un ambiente ostile il peggioramento della qualità della vita è dietro l’angolo.
Una ricerca fatta da Deloitte e pubblicata anche su Il Sole 24 Ore riporta che sempre più ragazzi della generazione Z e Millennial affermano di provare ansia e stress.
Quel che emerge dal report è che nelle nuove generazioni, subito dopo le questioni economico-finanziarie dovuta agli stipendi instabili, in cima alle preoccupazioni c’è la salute mentale.
Su 10 intervistati, quasi la metà della Generazione Z e quattro Millenial affermano di aver provato ansia e stress e, in alcuni casi, di essere arrivati fino anche al burnout. Il lavoro ne è stata la causa principale, specie per le donne.
Più di un terzo della Generazione Z e circa quattro Millenial su 10 hanno delle responsabilità genitoriali verso genitori anziani o figli ed il 40% degli intervistati denuncia che conciliare tutto questo con il lavoro impatta molto sulla salute mentale.
Il 46% degli intervistati della Generazione Z sostiene che i social aumentano la solitudine e la sensazione di inadeguatezza.
Il 36% afferma di sentirsi esausto per la maggior parte del tempo trascorso al lavoro;
il 35% è distaccato mentalmente dalla propria occupazione ed il 42% fatica a dare il meglio di sé al lavoro.
Per quanto riguarda i Millenial, invece, i numeri sono rispettivamente del 30%, 28% e 40%.
I giovani chiedono inversioni di rotta alle organizzazioni: per più di 8 persone su 10 le azioni per la salute mentale sono tra i fattori più importanti nella valutazione di potenziali nuovi lavori.
Le nuove generazioni puntano al raggiungimento di un buon equilibrio tra lavoro e vita privata, richiedendo modalità di lavoro più flessibili (smart working o lavoro ibrido), settimane lavorative di 4 giorni e maggiori opportunità ed avanzamenti di carriera anche per chi scegli il part-time.
Su 10 intervistati, 6 della Generazione Z e quasi la metà dei Millenial affermano di aver subito molestie o micro aggressioni sul lavoro come comunicaizoni inappropriate, approcci indesiderati, esclusione, battute sul genere e molto altro.
Non si può pretendere che le aziende private colmino ogni disagio, come è impensabile che ognuno di noi possa lavorare in smart working (come potrebbe farlo, per esempio, un operaio o n muratore?), ma una società che non si prende cura della salute mentale dei suoi giovani, è destinata a fallire.
Ma il problema non riguarda solo i giovani: sono infatti sempre più le persone che hanno un Work Life Balance inadeguato e che finiscono quindi vittimi di burnout.
Fra tutte, per riassumere il concetto in modo sintetico e sostanzioso al tempo stesso, c’è forse una frase in particolare che può far passare il concetto:
“Tra vent'anni gli unici che si ricorderanno che lavoravate sempre fino a tardi saranno i vostri figli” Share on X
Per chi non avesse figli, il principio è lo stesso e va applicato alle persone care o anche solo al tempo sottratto alle cose che vi piace fare e che vi fanno stare bene.
Nel mondo del lavoro, specie al giorno d’oggi, è facile essere scaricati in un secondo dopo anni di duri sacrifici che non vengono riconosciuti o ricordati, con la conseguenza di rimanere con nulla in mano.
La vera ricchezza è la qualità della vita.
***
Bibliografia consigliata:
- Sostenibilità e Risorse Umane. Strategie e Indicazioni Operative
- Agile HR Il nuovo ruolo strategico delle risorse umane
- Ridisegnare il lavoro. Le nuove sfide del people management
- L’era del lavoro libero. Senza vincoli né barriere. Siamo pronti a questa rivoluzione?
- Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo
- Boomers contro Millennials. 7 bugie sul futuro e come iniziare a cambiare
- Un bel lavoro. Ridare significato e valore a ciò che facciamo
Questo articolo è offerto da:
altri articoli di questo autore
Vorrei iniziare il mio commento partendo dalla frase-slogan più significativa dell’articolo: “Tra vent’anni gli unici che si ricorderanno che lavoravate sempre fino a tardi saranno i vostri figli”.
È questo il punto.
Oltre al fatto che stress, ansia e depressione costituiscono il secondo problema di salute lavoro-correlato più comune per i lavoratori, non solo a livello nazionale ma anche europeo, questi dati ci permettono di sdoganare il tema della salute mentale dai suoi pregiudizi o stigma di sempre. Infatti, oggi entrano a pieno titolo tra i rischi sulla salute e benessere dei lavoratori, e delle conseguenze che possono avere, di riflesso, anche nella loro vita personale/familiare.
Il fatto che ci siano carichi di lavoro eccessivi a cui non si riesce a far fronte, che i responsabili manager non tengano conto del feedback del lavoratore, che la comunicazione sugli obiettivi e i cambiamenti sia scarsa, che ci siano pregiudizi di genere o di altra natura, o che il lavoro non sia strutturato ma rimanga sempre “appeso” in contratti precari, sono tutti fattori scatenanti di un disagio che può sfociare in burn-out o disimpegno psico-fisico con forte impatto sulle prestazioni del lavoratore.
Ma torniamo agli inizi del mio commento: i nostri figli, quelli che un giorno lavoreranno al posto nostro, saranno altrettanto disposti a fare rinunce o pagare il conto, salato, di queste conseguenze? Lasciamo un segno di speranza, risolviamo il problema adesso, e subito.
bellissimo articolo complimenti! Il tweet è molto veritiero.
Grazie Fiorella, i suoi complimenti li rivolgeremo all’autore dell’articolo, Dott. Francesco Puppato