Perché si lavora? Per quale retribuzione?
Numerosi gli intellettuali che hanno cercato di rispondere a questo interrogativo, dando vita a diverse prospettive teoriche. Karl Marx, Frederick Taylor, Adam Smith per citarne alcuni.
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Come primo spunto di riflessione, è necessario ricorrere al significato etimologico del sostantivo: lavoro che deriva dal latino labor = fatica.
Fatica e lavoro rappresentano due facce della medesima medaglia. Non sarebbe concepibile l’esistenza dell’uno senza l’altra.
A riconferma di ciò, la parola lavoro tradotta in francese diventa travail, in spagnolo trabajo, in portoghese trabalho. Davvero simili per assonanza al termine italiano travaglio.
Da questo sillogismo se ne detrae quindi una corrispondenza biunivoca tra sofferenza, intesa come fatica fisica e mentale, e lavoro: una donna che soffrendo da alla luce suo figlio sta compiendo un lavoro così come lavorare è paragonabile all’intensa fatica e sofferenza di un travaglio.
Se a sua volta la donna in travaglio non sta soltanto soffrendo, ma anzi lavorando, quel dolore è generatore di una nuova realtà, e dunque non si esaurisce nel puro patimento, in quanto produttivo.
Dualmente, anche il lavoro dovrà essere definito come “quell’attività specificamente umana che consiste nel tradurre in pratica un’idea, nel conferire sostanza concreta ad un progetto.”
Ma quale è l’utilità del lavoro? Quale è lo scopo? E quindi, come deve o può essere retribuito il lavoro? Nel caso dovesse esistere una spiegazione, questa sarà univoca ed oggettiva?
Possiamo ricercare le risposte alle nostre domande, e vedere come queste cambiano la visione del lavoro, analizzando tre correnti di pensiero a livello prettamente macroscopico.
Per il classicismo e la tradizione cattolica il lavoro è necessità naturale. Il modo in cui l’uomo perpetua la sua sopravvivenza. Ciò implica che, non appena si ha il necessario per sé e per le persone legate materialmente a sé, il lavoro non ha più alcun “senso”. Si può quindi abbandonarlo senza alcuna conseguenza legale o morale. La retribuzione è così strettamente legata alla definizione dei beni necessari a sopravvivere (cibo, vestiti, più raramente denaro).
Per il liberalismo del ‘7-800 ed il marxismo, il lavoro è invece la piena realizzazione individuale e collettiva dell’uomo, poiché risponde alla più alta aspirazione umana di rendere docile e produttiva la natura. L’individuo vede quindi nel lavoro la possibilità di mettere a frutto le sue doti migliori (artistiche, spirituali, ecc) trovando nella retribuzione la ricompensa ricevuta dalla società per averla fatta progredire tramite il suo sforzo.
Per il neoliberalismo il lavoro invece è svincolato da qualsiasi utilità collettiva. E’ una, fra le tante, possibilità di autorealizzazione individuale. Non è necessario né, di per sé, positivo. Assume un senso che è esclusivamente funzione di quale sia la prospettiva ed i valori ad esso attribuiti da chi lo sceglie. In tal caso, la retribuzione perde qualsiasi riferimento oggettivo, ed è rimandata alla libera negoziazione fra chi presta il lavoro e chi ne riceve il frutto.
Questa negoziazione può comprendere sia la natura che la quantità del pagamento: si può essere pagati in emozioni, in visibilità, in denaro, in prestigio sociale, ecc.
Alla luce del percorso tracciato, il neoliberalismo è la prima teoria che svincola il lavoro da necessità collettive, svincola quindi la retribuzione dal dover essere (anche) di natura materiale.
Entro tale cornice concettuale sono però pensabili e fattibili solo il lavoro gratuito, magari per accumulare esperienza e/o visibilità; esempio tipico del mondo dello spettacolo.
Non esiste quindi una risposta univoca ed oggettiva alla domanda: perché lavorare?
Dopo aver cercato di trovare un senso al lavoro ed ai suoi molteplici scopi, nel prossimo articolo ci occuperemo in maniera specifica di motivazione.
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