(Non) È pericoloso sporgersi
”Conosco delle barche che si dimenticano di partire.
Hanno paura del mare a furia di invecchiare”.
Jacques Brel
La tendenza a normare ogni cosa, anche la più semplice ed intuitiva, scandisce i tempi delle Comunità Organizzate. Potremmo quasi dire che l’evoluzione di un certo modo di fare impresa passa attraverso la redazione di Normative sempre più audaci. Non è solo un tema Aziendale, sia chiaro. E’ un retaggio Istituzionale che trova la sua sublimazione nell’attività del Parlamento come organo Legislativo a cui si aggiunge la frenetica attività governativa che si traduce in una miriade di Decreti Legge o gli attualissimi DPCM che hanno scandito le ore più buie che abbiamo tutti vissuto in epoca di pandemia e di forzata clausura. Prendiamone atto: oltre ad essere un popolo di Santi, poeti, navigatori, ecc… siamo un popolo che legifera. E tanto. Spesso lo facciamo per rimarcare quello che non si deve fare. Se ci fate caso la maggior parte delle Norme, anche semplici Norme di funzionamento, pongono l’accento su quello che non si deve fare o su quello che è addirittura vietato ed espone quindi a delle conseguenze per chi non osserva quel sistema di regole. C’è di converso una certa ritrosia a esplicitare quello che va fatto o che bisogna fare. Siamo poco allenati a questo e le difficoltà che incontriamo sono evidenti come è evidente la poca fantasia nell’assegnazione degli obiettivi di risultato e anche di comportamento, espressioni del fare e dell’essere. La serialità degli obiettivi rappresenta uno dei principali freni allo sviluppo delle Organizzazioni.C’è un elemento da troppi anni assente: il coraggio. Non possiamo ridurre l’assegnazione di obiettivi a una semplice (per modo di dire) decodifica in linguaggio tecnocratico della confusione che regna sovrana. Se provate a chiedere alla maggior parte delle persone di declinare un paio di obiettivi che sono stati loro assegnati in fase di pianificazione vi risponderanno alzando gli occhi al cielo. C’è una sorta di incomunicabilità di fondo, come due che parlano lingue diverse e incomprensibili e nessun traduttore che li possa aiutare. Un solco profondo che misura lo scollamento tra il reale e il mondo delle possibilità. Tenere insieme queste due anime erranti è un po’ come voler ricucire una vita a brandelli con un filo di voce. Manca in buona sostanza il patto emotivo che tiene insieme questo sistema di profonde contraddizioni. Manca quello che potremmo definire il coraggio di osare, di andare oltre l’obiettivo in sè, manca un obiettivo di senso la cui assenza produce smarrimento, incertezza, sfiducia o nel peggiore dei casi indifferenza. Parlare di temi come l’inclusione non può quindi ridursi in sterili esercizi di stile ma deve caratterizzare il modo di essere cittadini dentro l’Organizzazione. L’inclusione è soprattutto uno sforzo di comprensione reciproca e le parole sono importanti al pari di un gesto romantico come una carezza o ruvide come può esserlo un manrovescio. Ci viene detto, spesso per sminuire un concetto, che siamo bravi a parole, enunciatori di principi, creatori seriali di slogan sempiterni e buoni per tutte le stagioni come zucchine coltivate in serra. La realtà è che abbiamo smarrito la bellezza salvifica dell’ascolto profondo, del piacere che si prova nel sedimentare informazioni per poi restituirle senza quella smania di parlarsi addosso scaricando l’ansia del momento. Abbiamo finito per adattarci a un sistema normato di finzioni, un gioco delle parti che ci sembra lo strumento per raggiungere una verità assoluta alla quale in fondo non crediamo nemmeno noi. Rimane un faticoso processo di adattamento o forse sarebbe più corretto usare l’espressione conformarsi che restituisce un’accezione di certo non edificante. Ne facciamo un utilizzo improprio pensando siano sinonimi e la confusione aumenta quando inseriamo nel dibattito una delle parole più cool del momento: Cambiamento. Le fisiologiche resistenze che incontriamo nelle persone sono il frutto di questa ambiguità di fondo, un’ambiguità che finisce con l’ingessare anche le migliori intenzioni. La verità è che non se ne può più di declinare il cambiamento secondo schemi che sono ormai superati e quindi anacronistici. Accomunare il cambiamento ai pachidermici processi di adattamento o addirittura alla pratica del conformarsi più per quieto vivere che per reale necessità è una semplificazione che non regge più. Il cambiamento viaggia fieramente in direzione ostinata e contraria. E’ un atto di disubbidienza, una rivoluzione che coinvolge non il singolo ma intere comunità di persone e per tale motivo ci appare come un qualcosa in fin dei conti democratico. Invece accade che il cambiamento lo si vive con la mestizia del lutto per il semplice fatto che non siamo stati capaci di raccontarlo e spiegarlo fino in fondo. Non riusciamo a far passare quel senso di stupore e curiosità ancorandolo non a cose astratte ma al contesto in cui siamo immersi che ci sembra un labirinto con mille porte e nel dubbio su quale scegliere rimaniamo fermi con la vana speranza che qualcun altro decida per noi che rimane la strategia peggiore.
Su certi treni polverosi degli anni 70 che avevano nomi da Cartoon tipo Accelerato, Rapido, Locale, Pendolino ecc… sotto ogni finestrino c’era una targhetta in plastica che riportava la seguente avvertenza tradotta in quattro lingue: “E’ pericoloso sporgersi”. Doveva essere un deterrente per evitare che qualcuno preso dalla frenesia si potesse sporgere mettendo la testa fuori rischiando che un treno proveniente dalla direzione opposta lo decapitasse. Una norma a tutela delle persone ma declinata in modo freddo. Oggi i treni vanno molto più veloci e i finestrini sono sigillati. Nessuno guarda più fuori e questo è un problema perché alla fine pensiamo che il mondo che ci stimola è confinato nello schermo di un telefonino di ultima generazione.
Come famiglia HR dovremmo interrogarci se abbiamo fatto abbastanza per educare le nostre persone a guardare fuori, a scoprire cosa c’è, fosse anche il nulla cosmico ma resta il piacere della scoperta, di una presa di coscienza che fa vibrare le corde dell’anima. Per questo motivo trovo irritante la parola colloquio, intrisa di formalismo e burocrazia del vivere. Non si colloquiano le persone, si ascoltano e ci si dialoga cercando non la persuasione (parola che mi fa rabbrividire) ma una certa idea di rivoluzione, quella lampadina che tiene accese le speranze e ci fa riflettere sul fatto che in fondo non è affatto pericoloso sporgersi specie se hai vicino qualcuno che ti spiega con parole semplici i rischi e le opportunità a cui vai incontro.
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Complimenti! Un articolo che cattura e stimola la riflessione, lo rileggerò