Neuroplasticità e Leadership
Fino a oggi posso dire di aver incontrato molte persone, in diversi contesti, alcuni dei quali legati ad esperienze di “apprendimento”: scuola, attività sportive, lavoro.
Soprattutto in questo ultimo contesto, dove le nuove dinamiche lavorative hanno dato un significato differente al ruolo del “leader” e della “leadership” all’interno delle organizzazioni, molti esperti, anche nell’ambito della psicologia del lavoro, hanno iniziato a offrire corsi formativi per migliorare la preparazione e le conoscenze di questa figura professionale in continuo sviluppo.
E senza dubbio, è probabile che oggigiorno ci siano leader capaci di elencare le nozioni base relative a una “leadership efficace”, in grado di spiegare “i quattro paradigmi teorici” su cui si basano questi processi, o illustrare il proprio stile di leadership alla riunione del personale utilizzando i termini più “significativi” ed a “effetto” come “motivazione”, “riconoscimento”, “supporto”, “problem solving”, “mediatore”, “ascolto attivo“, ecc. ma, a parer mio, faticando ancora a mettere in pratica queste tecniche apprese.
È mia opinione che dalla “teoria” alla “pratica”, soprattutto in questo campo, si debba passare per un altro tipo di “processo”, che non è solo quello di “imparare” dei concetti: dal mio punto di vista, la sfida più grande da affrontare per diventare un buon leader è lavorare su noi stessi, sulla nostra personalità, i nostri limiti, sulla capacità di relazionarci con gli altri, ostacoli spesso “latenti” nella produzione di una leadership eccellente.
E stavo pensando proprio a questo aspetto ascoltando il Dottor Andrew Huberman in uno dei suoi interessantissimi podcast sulla “neuroplasticità” [“How to Focus To Change Your Brain”] : quella capacità del nostro cervello e del nostro sistema nervoso di “cambiare” sé stesso per pensare in modo diverso, per imparare cose nuove, per modificare il comportamento, per adattarsi velocemente alle nuove sfide a cui la vita ci mette di fronte.
Ma per compiere questo tipo di “cambiamento”, specialmente dopo i venticinque anni, quando cioè la neuroplasticità del cervello tende a diminuire, dobbiamo sforzarci di innescare una serie di processi che fissino le nuove informazioni alle nostre reti neurali. Non basta ascoltare le lezioni, leggere libri o memorizzare regole: il primo passo è proprio il riconoscimento di “qualcosa”, che sia un’emozione, l’esigenza di imparare o la voglia di migliorare. Dobbiamo avere dunque la volontà e la forza per attivare questa parte del nostro sistema cerebrale e modificare quei percorsi neurali connessi alle informazioni precedenti.
Un processo quindi che miri ad innescare quei neuromodulatori legati allo stato di allerta (epinefrina) e concentrazione (acetilcolina), direttamente attivati dal coinvolgimento motivazionale, gli obiettivi da raggiungere, la volontà di cambiare: ecco che, a mio avviso, in questa ottica il leader dovrebbe perdere ogni ancoraggio a un significato circoscritto al suo “status” in una ipotetica scala gerarchica, sia sociale che aziendale, e spostarsi verso quello di “strumento” utilizzato al fine di raggiungere il giusto equilibrio tra profitti e soddisfazione lavorativa all’interno delle organizzazioni in cui opera.
Se le teorie universaliste sono fallite, dimostrando ampiamente che i tratti del leader non sono innati, secondo la mia opinione, per riuscire a trasformare e influenzare positivamente gli individui e il sistema organizzativo, dobbiamo essere capaci di cambiare prima di tutto noi stessi, adattando conseguentemente il nostro stile di leadership ai differenti gruppi di lavoro che incontriamo di volta in volta sul nostro cammino. Perché è attraverso questo sviluppo che possiamo diventare persone migliori e quindi leader migliori.
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