Un leader autorevole sa mantenere due promesse

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Un leader autorevole sa mantenere due promesse

Non basta il ruolo, per essere un leader autorevole. Così come non bastano il carisma e la forza di volontà. La leadership diventa autorevole quando chi guida si mette nelle condizioni di poter dedicare tempo ed energia sia alla gestione dei problemi che delle relazioni coi collaboratori. L’autorevolezza è frutto di presenza e coerenza.

È una cosa terribile guardarsi dietro le spalle quando si sta cercando di condurre, e non trovare nessuno.
 (Franklin Delano Roosevelt) Share on X

di Massimo Fancellu

Uno dei motivi per cui i dipendenti non fanno (o fanno male) ciò che gli viene chiesto, è dovuto alla  mancanza di autorevolezza di chi glielo chiede, cioè del loro capo. 

L’autorevolezza è un concetto molto sentito nelle aziende; molti degli imprenditori e dei responsabili aziendali che partecipano ai miei corsi, infatti, spesso mi dicono che, per avere più polso e farsi rispettare, “bisogna essere autorevoli…”.

Ma appena chiedo cosa serve per essere autorevoli, cosa bisogna fare per esserlo o come ci si accorge di esserlo, lo scenario si fa incerto: molte delle persone che parlano tanto di autorevolezza non hanno le idee altrettanto chiare su che cosa sia nel concreto, però.

Per il dizionario Treccani, autorevole è la persona che ha autorità per la carica che riveste, per la funzione che esercita, per il prestigio, il credito, la stima di cui gode.

Quindi, traslando questo concetto nel mondo delle imprese:

un leader è autorevole quando le sue qualità personali e professionali - e quindi la sua credibilità come persona - sono riconosciute dagli altri. Share on X

Ora, probabilmente, alcuni miei colleghi ancora infatuati dell’abbinata “show & motivazione” direbbero (in parte, anche a ragione) che per essere autorevoli ci vuole la forza di volontà, la chiarezza degli obiettivi, la capacità di fare discorsi carismatici, di quelli che tengono incollati sulla sedia, e così via.

Con tutte le buone intenzioni che possono avere, questi trainer raccontano solo la mezza messa.
Ritenere (e voler convincere gli altri) che basta essere spavaldi, grintosi, determinati e sciolti nel parlare  per diventare automaticamente persone credibili è un modo semplicistico e riduttivo di trattare la leadership. E, quindi, si rivela quasi sempre inefficace.

Infatti, se il leader non è uno sprovveduto, di certo sa bene che la sua autorevolezza non gli deriva né può migliorarla solo a suon di concentrazione mentale e discorsi motivazionali. Questo perché è consapevole che per acquisire ulteriore credibilità dovrà mettersi in gioco perfezionando, via via, altri aspetti di sé.

Chi, incautamente, dovesse invece fermarsi alle belle parole motivazionali, potrebbe rendersi conto ben presto che questo non gli basta per ottenere più considerazione.
Tant’è che, ad esempio, ci sono imprenditori e dirigenti che, di certo, non brillano per le propri doti di public speaking o come motivatori d’assalto, ma questo non impedisce loro di essere dei leader autorevoli, apprezzati e rispettati dai propri dipendenti. 

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E dunque, cosa ci aiuta a capire se un leader è credibile?

Il fatto che riesca a mantenere due tipi di promesse:

1. I compiti che, per contratto, è chiamato ad adempiere per via del ruolo che ricopre

Ovvero le scelte, le decisioni e le azioni che in azienda competono a chi ha funzioni di responsabilità e coordinamento perché proprie della sua mansione. Per contratto, infatti, chi gestisce un gruppo di lavoro, deve prendere decisioni e intraprendere azioni di tipo organizzativo e strategico; deve saper analizzare e affrontare i problemi che si presentano e saper impartire direttive adeguate a tutto il personale che da lui dipende. Questo significa possedere due soft skills, due abilità fondamentali per esercitare una leadership autorevole: la capacità di prendere decisioni e la capacità di risolvere problemi, anche complessi (problem solving).

Detto così, può sembrare tutto facile e scontato; posso però assicurare che, ahimé, questo non sempre accade. Più volte, mi son ritrovato in aula dipendenti che si lamentavano dei loro dirigenti “uccel di bosco”: di fronte a situazioni e problemi in cui era necessario ricevere disposizioni dal superiore, il dirigente preferiva “diventare trasparente” anziché esporsi, assumendosi la responsabilità di decidere. Col risultato di lasciare i propri dipendenti disorientati e “col cerino in mano”! 

Che credibilità e autorevolezza può avere, agli occhi dei suoi sottoposti, un capo che preferisce “fare lo struzzo” anziché essere presente e dettare le linee guida strategiche e operative? Oltre a essere un dirigente scadente perché viene meno ai suoi doveri contrattuali, comportandosi in questo modo sarà anche difficile che possa conquistarsi la stima e la considerazione dei suoi collaboratori. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se questi ultimi tenderanno a non seguirlo, a non fidarsi e a non dargli retta quando, in altri momenti, il leader chiederà loro disponibilità e coinvolgimento.

2. I problemi, gli obiettivi, le situazioni su cui si impegna in prima persona, anche se non lo riguardano direttamente

Non tutto ciò che accade dentro un gruppo di lavoro riguarda direttamente il Team leader.
Un tipico caso è
quando ci sono dei conflitti o malumori fra due o più dipendenti, ad esempio, che però, in qualche modo, disturbano il clima di lavoro. È chiaro che il Team leader non ha una responsabilità diretta sulla situazione, ma questo non significa che debba necessariamente disinteressarsene. Il suo primo impegno, infatti, dovrebbe essere quello di valutare se è il caso di intervenire o meno e, poi, di capire in che termini farlo.

E qui entrano in gioco le sue attitudini personali, le famose soft skills, appunto: quanto, cioè, sa usare competenze come l’analisi del contesto, l’empatia, l’ascolto, la capacità di comunicare e di creare interazioni positive, ad esempio, per diventare un punto di riferimento credibile e autorevole per il gruppo. Un suo intervento potrebbe essere utile, ad esempio, per sostenere, avallare, rassicurare o, comunque, anche solo per dare un punto di vista diverso o, addirittura, per cambiare gli assetti organizzativi, magari destinando ad altro incarico o sede i lavoratori che non vanno d’accordo (ove possibile, naturalmente).

Così come, un altro caso assai frequente è quello del dipendente in difficoltà nel portare avanti una pratica o un incarico non di routine che gli è stato affidato. Anche qui: un capo autorevole sa valutare se è più opportuno adoperarsi a sostegno del collaboratore perché, oggettivamente, ha bisogno di supporto e riscontro, o se, per far crescere e responsabilizzare maggiormente la persona, non sia  preferibile distaccarsi, magari osservando a distanza l’evolversi di quel lavoro.

Ciò che più conta è essere presenti e coerenti con la decisione presa: questo significa mantenere la promessa e, quindi, rafforzare la propria autorevolezza.

Cosa penserebbe, infatti, quel collaboratore se, mentre a parole il capo gli fa capire che gli presterà aiuto, poi non gli mandasse nessuno in affiancamento o non gli desse istruzioni più precise su come svolgere il nuovo compito? La credibilità si conquista con la coerenza.
Perciò,
va benissimo l’ascolto se a questo seguono anche i fatti concreti altrimenti è normale che chi prima è stato ascoltato ma subito dopo dimenticato si senta preso in giro, frustrato e inizi a considerare inaffidabile e poco credibile quello che, solo a parole, è il suo leader.

Ci sono due tratti meravigliosi, comuni a tutte le soft skills: le competenze relazionali e manageriali si possono imparare e, una volta imparate, si possono applicare con la stessa efficacia con persone e in contesti differenti. Non a caso, sono chiamate anche competenze trasversali, infatti.

La verità, però, è che queste abilità personali si imparano e si mettono in pratica solo se, a monte, il leader mette in conto di avere tempo per occuparsi di ciò che è veramente importante (e questa è la presenza) e di farlo con serenità. Le buone valutazioni e le buone decisioni non si prendono mai sotto stress!

 

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Massimo Fancellu
Team & Business Coach, Mentor Coach, Formatore.
Coach professionista con credenziali PCC (Professional Certified Coach ) riconosciute da ICF (International Coach Federation); iscritto nel Registro internazionale dei Mentor Coach ICF. Specialista in Teambuiliding & Team coaching per lo sviluppo del lavoro di gruppo (formazione avanzata sui Team d’eccellenza maturata con MensLab Coaching & Training, Future Coaching Academy) e in Outdoor Management Training e attività esperienziali coi Team aziendali (formazione presso lo IEN – Istituto Europeo Neurosistemico di Genova). Ideatore di TEAM IN 3 PASSI, il metodo che - per gradi e senza forzare - trasforma realmente le persone che lavorano assieme in un Team affiatato, motivato e produttivo. Fondatore e Amministratore di Agape Consulting Sas, società che dal 2002 offre servizi di coaching, formazione & comunicazione. Dal 1996 lavoro come formatore in materia di Sviluppo del potenziale umano e comportamenti organizzativi. In particolare, mi occupo di dinamiche di gruppo, sviluppo dei Team aziendali, leadership, comunicazione, creatività e innovazione. Oltre a una Laurea in Economia (Università di Bologna), circa una trentina i master, i corsi e i seminari a cui ho partecipato in più di 20 anni, ad iniziare dal percorso “Formazione Formatori” presso l’ISMO di Milano e il percorso di Coaching con SUN (Success Unlimited Network), la prestigiosa scuola di coaching presente da oltre 30 anni in 5 continenti. Diversi, inoltre, anche i master con trainer di livello internazionale (R.Bandler, R.Dilts, J. Grinder & C. Bostic St Clair, S. Gilligan, E. De Bono). Discipline in cui ho sviluppato più competenze: Team coaching & Teambuilding, PNL e comunicazione ipnotica, Supervisione (osservazione e feedback su comportamenti e processi) e Mentor coaching (il “coaching ai coach” per migliorare il loro modo di fare coaching).

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