Lavoro e Performance
Le nuove generazione stanno affrontando le sfide del mondo del lavoro in modo diverso da come venivano affrontate qualche tempo fa. In parte la causa è sicuramente un sistema sempre più buio e precario, ma la vera incidenza sulla diversa percezione del lavoro – su ciò che può offrire e su quanto siamo disposti ad offrire – è il ruolo che la salute mentale sta occupando in questi ultimi anni. Si stanno ponendo in essere piccole rivoluzioni lavorative evidenti, dal fenomeno conosciutissimo delle grandi dimissioni alla più generale affermazione del concetto di riumanizzazione del lavoro.
I giovani non sono disposti a sacrificare il proprio benessere psicofisico nella misura in cui è stato sacrificato fino ad oggi. É un gioco equilibrato di dare e avere. É ciò che dice Emily Dickinson parlando dell’amore: “sia il carico in proporzione al solco”. Sia il sacrificio in proporzione al benessere.
C’è un parola fortemente controversa nel mondo del lavoro: performance, o performatività. C’è chi vede nel concetto uno stimolo a fare sempre di più e ne ha quindi una visione positiva e c’è che ci vede un limite a cui spesso siamo richiamati, in cui viene richiesto che tutta l’esistenza debba essere performativa.
Il lavoro necessariamente è una performance, concetto strettamente connesso a quello di produzione. Il lavoro è generatore, ma deve quindi essere sempre produttivo e performativo?
Quello che sta succedendo nel mondo del lavoro oggi non sembra essere un tentativo di superare il concetto di performance ma quanto meno di rivederne le priorità, di ristabilire la qualità performativa, modellandola sulla base del benessere psicofisico del soggetto a cui viene richiesta, assimilare il concetto per cui per avere risultati altamente performativi è anche necessario non perfomare affatto.
Se si da importanza esclusiva alla performance questa finisce per bruciare le risorse disponibili senza possibilità di rigenerazione.
Concludo con un ultimo riferimento alla letteratura, questa volta italiana. Nuccio Ordine, nel suo manifesto “L’utilità dell’inutile”[1], vuole trasferire il messaggio per cui non tutto ciò che è utile produce profitto e non tutto ciò che è inutile necessariamente non produce profitto; vuole sganciare il concetto di utilità come univocamente collegato al tema del profitto. Chiaramente lui si riferiva al sapere, alle conoscenze umanistiche, ma è un concetto facilmente cedibile al nostro nuovo mondo del lavoro, ovvero, non considerare il lavoro come semplice e sola attività performativa.
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