La ricreazione è finita
Scegliere la scuola e trovare il lavoro
di L. D’Agnese e R. Abravane
recensione di Daniele Burtoli
“Perché i giovani italiani non trovano lavoro? Per colpa della crisi”. Falso.
O, quantomeno, l’attuale fase di depressione economico-finanziaria non è che una spiegazione marginale e residuale di questo preoccupante fenomeno.
Questa è, volendo riassumere il testo in una frase, la tesi da cui sembrano partire Roger Abravanel e Luca D’Agnese.
La ricreazione è finita: scegliere la scuola e trovare il lavoro
Il libro è diviso in quattro parti – per quanto assolutamente organiche tra loro – che trattano, rispettivamente: pre-giudizi sul MdL, i più importanti trend di cambiamento che lo stanno attraversando, il mondo della Scuola, una serie di “consigli per gli acquisti” che dovrebbero guidare il lettore più attento nella scelta del proprio percorso.
Nel primo capitolo, gli autori muovono una critica neppur troppo velata al nucleo familiare responsabile, a loro dire (ma chi potrebbe contraddirli?), di inculcare sin dai primi anni di vita messaggi fuorvianti circa il mondo del lavoro.
Continua con il lavoro dei tuoi genitori, scegli la scuola più vicina a casa, non rallentare gli studi lavorando, aspira ad un bel voto a costo di qualche semestre “fuori corso” e non pensare mai, mai e mai, di abbondare questo Paese.
Queste sono le frasi che, secondo il saggio, di più nuocciono ai ragazzi insieme al “sempreverde” tema delle raccomandazioni.
Per replicare a questa “scusa” che riecheggia ancora in troppi bar di provincia e non solo, in chiusura di capitolo Abravanel e D’Agnese citano – pur senza nominarlo – il sociologo statunitense Mark Granovetter, il quale ha, ormai da tempo, messo in luce la vera “forza dei legami deboli” (Granovetter, 1973).
Soprattutto quando dobbiamo trovarci un’occupazione (“Getting a job” è il titolo dell’altra opera del sociologo), le conoscenze che ci tornano più utili non sono infatti quelle dell’amico di famiglia di cui, presumibilmente, condividiamo la cerchia di opportunità di cui è a conoscenza, nonché l’ambiente di vita e di lavoro; bensì, quelle persone “lontane”, con le quali abbiamo un rapporto appena accennato, che magari abbiamo conosciuto anni addietro in un corso di formazione, e con le quali siamo rimasti in contatto.
Nel mondo del lavoro del 2016, dove LinkedIn e non solo hanno reso sin troppo semplice costruirsi un buon network professionale, sembra essere questa la capacità di cui abbiamo bisogno.
Più della così apprezzata raccomandazione.
Nel secondo capitolo si passano in rassegna le affermazioni che importanti esponenti politici si sono lasciati sfuggire sui giovani.
Benché non possiamo annoverarle tra le dichiarazioni più felici della storia, i vari appellativi da “bamboccioni” a “sfigati” a “choosy” sembrano ben adattarsi ad una gran parte dei giovani che, scoraggiati anche da media e genitori, troppo spesso si abbattono, quasi a voler ammettere che l’unica possibilità sia (parafrasando l’ironico tweet di @noebasta, che apre il capitolo) “scegliere che tipo di disoccupato si vuol essere da grandi”.
Ma gli autori offrono soluzioni alternative.
Numeri e grafici vengono qui in aiuto della tesi, seppur lapalissiana, secondo la quale il lavoro è profondamente cambiato (si parla – pur non in questi termini – di toyotismo, real time marketing, glocalizzazione, etc.), ma le opportunità esistono ancora.
Le opportunità esistono a patto di abbondare le aspirazioni legate al passato (si pensi al mito del posto fisso, parodiato da Zalone nel suo recentissimo successo), nonché il modo di cercare occupazione legato al passato, verso un vero e proprio “curriculum del ventunesimo secolo”.
Il quarto capitolo si apre con una citazione di Henry Ford che affermava, per le sue fabbriche, di aver “bisogno di persone brave, non solo di brave persone”.
Si potrebbe pensare a Ford, in questo caso, come un estimatore ante litteram delle “soft skills”, che il libro suggerisce come vera arma vincente nella ricerca di una posizione lavorativa.
In un mondo del lavoro in cui presto passeremo il 75% del nostro tempo a lavorare in team, queste competenze trasversali pesano, in fase di selezione, per il 60%, così come afferma il presidente di ManpowerGroup Italia, Stefano Scabbio, intervistato dagli autori.
Ma quali sono queste soft skills?
Ecco un breve elenco, certamente non esaustivo dell’elenco fornito nel testo, che ovviamente è a sua volta parziale per via della natura stesse di queste capacità, ovvero di non essere “hard”, dure, misurabili, chiare ed oggettive:
- conoscere l’etica del lavoro
- sapere collaborare
- avere buone capacità di comunicazione, soprattutto orale e di problem-solving
- non aver paura di fallire e rialzarsi
- possedere capacità di leadership o, come diceva Roosevelt, saper “convincere i propri collaboratori a far ciò che essi ritengono impossibile ed aiutarli a farlo”.
La terza parte del libro, il capitolo 9 in particolare, è dedicata al commento di alcuni dati internazionali, ad esempio attraverso i test Pisa, sul tema della scuola.
Data la natura quantitativa dei dati utilizzati per il confronto, mi astengo dal voler fornire un estratto in queste poche righe e rimando ad una lettura integrale di quelle pagine.
Due trend emergono però in maniera evidente.
In particolare: l’Italia, nel complesso, non è messa troppo male nei risultati (rispetto al PIL pro capite), ma c’è un enorme “devianza” tra i risultati del Nord rispetto a quelli del meridione, oltre che all’interno delle stesse aree geografiche.
Inoltre, complice il ciclo liceale di 5 anni (a differenza dei 4, ad esempio, degli Stati Uniti) e del “fallimento del 3+2”, i nostri laureati sono in media troppo “anziani” quando approdano al mondo delle imprese.
L’ultima parte del libro mostra come la prima importante scelta sia quella delle superiori, infatti, Abravanel e D’Agnese consigliano di comportarsi come un giocatore di scacchi, secondo una metafora che ho trovato molto suggestiva e perciò riporto integralmente:
Il [buon ] giocatore non si chiede come farà a fare scacco matto, ma come conquistare una posizione forte, che gli consenta di difendersi, non lo esponga a rischi eccessive, e gli dia le massime opportunità per il prosieguo del gioco.
Nel capito 17, dedicato all’Università, viene detto come il “pezzo di carta” in fin dei conti sia ancora utile nonostante, ovviamente, non più sufficiente per trovare un (buon) lavoro.
Una laurea di carattere aziendale, in un buon ateneo e – soprattutto – entro un tempo ragionevole, pur avendo maturato alcune piccole esperienze lavorative, sono comunque indicate come buone basi di partenza.
Le conclusioni del saggio, nonché di questa recensione, vertono su un (quasi) decalogo rivolto ai giovani per “scegliere la scuola e trovare il lavoro”: sviluppare una can to attitude, non cercare mai alibi, rendersi presto indipendenti dalla famiglia, uscire dalla comfort zone, non aver paura di fallire, seguire le proprie passioni, comportarsi da clienti dell’istruzione, spiccare nel personal branding, essere cittadini del mondo.
L’uscita di questo saggio risale all’Aprile scorso, ma la recensione nasce dall’aver avuto modo di leggerlo in preparazione ad un recente incontro con Abravanel all’interno del programma “incubatore di talenti” (http://www.forumdellameritocrazia.it/mentoring.aspx), al quale sto partecipando.