Il valore della Normalità
“Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”
Lucio Dalla
Sono un numero esiguo e sanno nascondersi bene. Succede che a volte vengono stanati e la loro resa è immediata. Nessuna reazione, nessun sentimento sovversivo li anima. Hanno la piena consapevolezza del loro potenziale e non ambiscono a bruciare le tappe. Sono talenti in un’accezione romantica del termine ed è una definizione che provoca in loro un certo turbamento non perché non si considerano tali ma perché realizzano che dal momento in cui qualcuno gli appiccica un’etichetta la loro vita dentro le Organizzazioni non sarà più la stessa di prima. Uno immagina una strada lastricata di successi, un altro ancora sogna di dirigere una squadra come fosse un’orchestra, il più lucido di tutti sogna la normalità. A leggerla così sembra una contraddizione in termini, associare la parola talento alla normalità, a una quotidianità agita fatta di comportamenti virtuosi, sembra quasi blasfemo abituati come siamo a dare valore all’unicità, a un modello sociale prima ancora che economico dove la figura del supereroe la fa da padrone. Siamo convinti che esista una dimensione, nella quale abbiamo diritto di cittadinanza, che ci eleva e ci rende non diversi ma migliori. Viviamo per questo ma soprattutto piangiamo per questo specie quando la frustrazione per non riuscire a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati si impadronisce di noi e ci attanaglia la gola come un morso di vipera. Addirittura, il senso di considerarsi speciali e quindi unici ci porta a svilire il concetto stesso di normalità al quale diamo una connotazione negativa. Tutto quello che è normale viene considerato sotto la media. Persino il meccanismo delle valutazioni professionali in molte Aziende risente di questa contraddizione per cui quando ci troviamo a valutare (non giudicare) una persona riconoscendole di aver raggiunto gli obiettivi, la reazione emotiva è quella di una certa insoddisfazione di fondo. Ed è un problema. Non per la valutazione in sé ma per il semplice fatto che il successo dura l’istante stesso in cui lo celebriamo mentre l’insoddisfazione si insinua nelle persone ed ha un periodo d’incubazione lento fino a manifestarsi all’improvviso quando magari è troppo tardi. Il meccanismo, per intenderci, è lo stesso che regola L’Herpes. Sarebbe troppo lungo disquisire di quanto incida il talento nelle Organizzazioni. Basti ricordare che le Organizzazioni in quanto strutture complesse governate da una serie di variabili in parte imputabili alle scelte del Management e in parte a fenomeni esterni che ne condizionano il funzionamento, sopravvivono grazie a una distribuzione Gaussiana della forza lavoro dove la parte più consistente, il vero motore silenzioso, è rappresentato da persone normali che hanno senso del dovere e rispetto verso gli altri e verso l’Organizzazione stessa. Il talento si distribuisce sulla Gaussiana posizionandosi a un estremo consapevoli di essere una fiera minoranza. Il loro operato, senza dubbio qualitativo e con veri e propri slanci creativi che possono generare cross fertilization, non è sufficiente a evitare questo impantanarsi delle Organizzazioni nelle sabbie mobile dell’inefficienza e della non competitività.
Ci sono ma non riescono a incidere, questo è il vero tema. Nel conflitto tra normalità e l’essere speciali non c’è proprio partita, stravince la normalità. E allora perché la combattiamo? Per quale motivo finiamo col dedicare energia ed attenzione verso una minoranza che noi sappiamo già non essere incisiva e risolutiva rispetto alle esigenze che abbiamo? La risposta potrebbe essere quella di una visione a lungo termine e sentir parlare di lungo termine a me rievoca la leggenda del Santo Graal che tutti cercano ma che nessuno ha mai trovato. Viviamo di esperienze. Alcune edificanti, altre dolorose. Sono tempi incerti dove l’espressione “mi manca l’aria” non è un eufemismo e ci fa guardare con nostalgia al passato, soprattutto quello prossimo. Mangiare una pizza con gli amici dopo una partita di calcetto o prendere un treno o un aereo per andare non importa dove ma è il gesto che ora conta e di cui vorremmo riappropriarci. Le cose piccole come una stretta di mano o immense come può esserlo un abbraccio o un bacio che sfiora le guance. Ci accorgiamo della normalità quando la perdiamo e la riconquista è impresa ardua, non basta il talento ci vuole il coraggio della speranza. C’è un acceso dibattito su un tema davvero attuale e che porta a definire il prossimo scenario con l’espressione “New Normal”. E’ interessante questo provare a disegnare contesti dove come per incanto, complice anche il periodo che stiamo vivendo, la parola complessità lascia il passo a una ritrovata normalità. Non è questa la sede per rivendicare primogeniture ma è importante questo passaggio che è soprattutto culturale che potrebbe o meglio sarebbe dire dovrebbe incidere sulla vita delle persone e delle Organizzazioni. Nostalgia, quindi, del passato ma anche l’ammissione che quel passato che abbiamo vissuto ci ha condotto verso un punto di non ritorno dove la persona si è smarrita, nella società civile così come nelle Organizzazioni. Non conosciamo fino in fondo gli effetti che questo nuovo corso comporterà, possiamo solo immaginarli, ma pensare di ripetere gli stessi errori del passato sarebbe un colossale suicidio collettivo. Uno su tutti: confondere la normalità con il buonismo. E’ inutile nasconderci, abbiamo ghettizzato il silenzio, derubricato la gentilezza identificandola con la debolezza, combattuto il sorriso e la leggerezza con la liturgia del fare e del disfare, celebrato la diversità dopo averla osteggiata per anni, confuso il rispetto con il più bieco servilismo, siamo diventati all’improvviso inclusivi dopo l’ennesima survey che ci ha crocifisso al muro. E abbiamo considerato tutto questo come fisiologico ma al tempo stesso abbiamo tollerato l’intollerabile. Ecco che New Normal diventa allora l’opera paziente dell’artigiano che realizza il suo manufatto con la cura, il dettaglio e la disciplina autentica che lo contraddistingue. Non dobbiamo più considerarci come fossimo delle entità diverse a seconda del palcoscenico sul quale siamo chiamati a recitare la nostra commedia umana come la chiamava il grande scrittore William Saroyan. Non è solo una questione di etica, è coerenza, significa contribuire a ridurre le diseguaglianze e restituire dignità alle persone che dentro le Organizzazioni, senza dover scomodare il sempiterno Adriano Olivetti, devono aver modo di trovare il proprio spazio realizzativo che non significa necessariamente più soldi o più incarichi di responsabilità. Significa produrre valore sociale prima ancora di beni perché stressare il concetto di produttività quando i consumi sono a un livello molto basso significa che quell’esame di Economia lo abbiamo superato studiando sul Bignami. Ci mancano dei pezzi, ci manca considerare il valore della vulnerabilità come necessaria soft skill da allenare nel prossimo futuro. Mi viene difficile immaginare una funzione HR che non si occupi di questi temi e che si limita ad aiutare e supportare il Business di riferimento nella ricerca spasmodica di livelli accettabili di produttività. Viviamola come una conseguenza naturale ma prima occorre risolvere in maniera rigorosa un conflitto che non siamo stati capaci di sedare vale a dire quello che potremmo definire come la teoria dell’invisibilità che ha lasciato sul campo morti e feriti in un generale clima di indifferenza. Ci sono due livelli di invisibilità che hanno una componente patologica diversa ma entrambe rappresentano un problema, un freno allo sviluppo delle Organizzazioni. Il primo livello di invisibilità è quello che mi piace definire consapevole. Si sceglie di diventare invisibili quando si smette di condividere il progetto d’impresa e quando si realizza che il proprio contributo è superfluo al raggiungimento dei risultati. Nel dubbio scelgo di non schierarmi né di avere un atteggiamento proattivo che mi consente di acquisire visibilità e forme di partecipazione più qualificate. Il risultato è quello di eclissarsi volutamente in una sorta di isolamento di convenienza. E’ come il cittadino che sceglie di non votare ed esprime in quel modo la sua protesta verso il sistema. Questo è un processo molto lento nella maggior parte dei casi che si sedimenta col tempo e in tutto questo tempo le colpe delle Organizzazioni così come quelle delle funzioni HR sono evidenti perché è manifesta la poca capacità reattiva che viene agita per provare a cambiare questo stato di cose. Il dipendente o collaboratore fa così un salto quantico ed entra a pieno titolo nell’universo dei detrattori, diventa un controdipendente e il controdipendente finisce col diventare spesso un influencer da emulare. La conseguenza è quindi un effetto alone preoccupante che vediamo allargarsi a macchia d’olio. Il secondo livello di invisibilità è meno patologico ma altrettanto preoccupante e consiste in questo eclissarsi delle persone fino a scomparire dai radar dell’impresa. A differenza degli altri che vanno stanati e combattuti con rigore nonostante un sistema di tutele sociali ed economiche che spesso impediscono una gestione ordinaria di queste posizioni incancrenite, questi ultimi vanno intercettati con un livello di inclusione che non può essere quello attuale in quanto non rispondente in maniera compiuta alla rimozione delle diseguaglianze interne. Non possiamo più accettare responsabili che si ispirano in maniera utilitaristica al principio di Pareto concentrandosi sul 20% della propria forza lavoro capace di generare un 80% di raggiungimento degli obiettivi. Gli altri li abbiamo dimenticati. Sono un puntino lontano come diceva Daniele Silvestri nella sua Salirò, ci fanno ciao ciao con la manina e li vediamo allontanarsi fino a scomparire. Non possiamo nemmeno più accettare funzioni HR che non abbiano questa sensibilità di fondo nel fare opera di evangelizzazione della normalità come pilastro di un nuovo corso. Confesso che ero partito da tutt’altra idea. Avrei voluto utilizzare la metafora del calcio per parlare di normalità oppure ispirarmi concettualmente al quel libro doloroso di Hannah Arendt dal titolo “La banalità del male” dove la parola normale assume addirittura un significato feroce. Poi si sa, ci si fa prendere la mano. Che in ogni caso rimane un gesto bellissimo.
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