La formazione indispensabile nell’era della digitalizzazione
Forse oggi più che mai, la nostra società si trova di fronte ad un bivio. Far crescere le persone, mettendole veramente al primo posto, oppure continuare a inseguire lo sviluppo tecnologico e digitale pensando che gli attori protagonisti siano macchine e algoritmi?
Da più di un osservatorio emerge ormai chiaramente come le fantastiche innovazioni di questi ultimi anni a nulla servono se non supportate dalla crescita e dallo sviluppo del capitale umano. Ecco perchè, sempre più, quando si parla di digitalizzazione… si parla anche di scommettere sulle persone!
Due visioni storiche a confronto per capire il presente
Per capire quanto sia alta questa scommessa sul futuro, è bene tornare per un attimo al 1911, anno in cui uscì il celebre libro “L’organizzazione scientifica del lavoro” di F.Taylor. Da questa pubblicazione, l’idea stessa di produzione industriale ne uscì rivoluzionata.
L’idea di F. Taylor era l’antenata della visione moderna della catena di montaggio. Sostanzialmente, secondo l’ingegnere e imprenditore statunitense, esisteva un nemico nelle linee di produzione delle industrie: il possibile errore umano dato dalla complessità delle operazioni sostenute dal lavoratore. Taylor ebbe quindi un’intuizione: aumentare l’efficienza produttiva attraverso la centralizzazione. Sostanzialmente andavano eseguite poche operazioni, semplici e ripetitive.
Questa pratica (si sarebbe scoperto solo dopo) portava di fatto all’alienazione del lavoratore, ma consentiva un risparmio sui tempi della linea di produzione, quindi sui costi stessi. Permetteva perciò al lavoratore di fare meno fatica ed avere accesso ad aumenti salariali.
Spiegato in questa maniera, il pensiero e l’intento di Taylor potevano apparire quasi nobili. Ma la realtà di ciò che si verificò dopo, era ben diversa.
Questa condizione difatti, sostanzialmente snaturava il lavoratore stesso, togliendogli ogni forma di autonomia e giudizio.
Con la promessa (paravento?) di un miglioramento delle condizioni lavorative, si impediva di fatto la crescita della persona, sia sotto il punto di vista umano che professionale: dove non c’è crescita non c’è progresso. In realtà attuando questa tipologia di pensiero, crescita e progresso ci saranno, ma solo per pochi.
Furono necessari vent’anni, e più precisamente il 1933, per ribaltare la concezione di lavoro che si era sviluppata dall’idea di Taylor. Il cambio di tendenza scaturì grazie alla pubblicazione del libro “I problemi umani della civiltà industriale” di Elton Mayo, sostanzialmente il fondatore della scuola di pensiero sulle risorse umane.
La visione di Mayo era diametralmente opposta a quella di Taylor, dal momento che sosteneva che la partecipazione attiva, anziché passiva, del lavoratore ai processi industriali, ne migliorava la soddisfazione e di conseguenza la produttività.
I punti salienti della scuola di pensiero di Mayo si basavano sul fatto che il benessere psicologico della persona è strettamente correlato alla sua capacità produttiva e viceversa: positività porta sostanzialmente positività.
Non da ultimo, Mayo non tralasciava quello che poteva scaturire dal senso di appartenenza che il lavoratore sviluppava, sia al progetto che alla comunità che vi lavorava attivamente. Le risorse umane sono il vero capitale dell’impresa, perché è dalle persone che nascono le idee, soprattutto quando sono parte attiva di una collettività.
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Ai giorni nostri: la catena di montaggio digitale
A distanza di quasi un secolo, la digitalizzazione ravviva la diatriba delle due correnti di pensiero Taylor/Mayo, diatriba tra l’altro resa ancora più attuale perché applicata nel contesto di una società intera anziché su una singola impresa produttiva.
Da un lato dello schieramento troveremo il pensiero neo-Taylorista che ha come unico fine quello di esaltare le potenzialità (indubbie, sia chiaro…) della digitalizzazione date dalle nuove tecnologie ad ogni strato del tessuto sociale: mobilità, sanità, scuola, ricerca, amministrazione ed ovviamente produzione.
Secondo questo pensiero, l’efficienza in tutti questi ambiti viene raggiunta attraverso la semplificazione delle istruzioni e dei compiti, sostanzialmente addestrando le persone a eseguire quanto viene loro assegnato… senza pensare.
Seguire la procedura diventa l’input principale ed il pensiero e l’iniziativa personale vengono visti come un ostacolo. L’unione fa la forza: mai “detto” fu più vero e realistico.
Togliendo alla collettività l’iniziativa, si creano cittadini/consumatori/produttori soli ed isolati, senza la capacità di comprendere, quindi di criticare, quanto li circonda.
La conseguenza di ciò è semplice: la società si impoverisce a livello di risorse umane, si indebolisce la democrazia e si accentra il potere nelle mani di pochi “eletti”. “Seguire la procedura” in sintesi è l’espressione del pensiero neo-Taylorista.
Dall’altra parte della barricata, troviamo l’eredità del pensiero di Mayo che, come già detto, è diametralmente opposta.
Ad oggi questo pensiero si concretizza nella possibilità (dovere) di investire in maniera massiccia ed innovativa su due punti: educazione e formazione del cittadino, perseguite integralmente e con continuità.
Un’intelligenza (coscienza) collettiva permette di tenere testa alle forme autoritarie del potere, evitando che queste si accentrino verso pochi elementi.
Grazie alla velocità di comunicazione permessa dalla digitalizzazione, tutto ciò è possibile. Come?
Sfruttando appunto il mondo digitale: non per fare qualche piccola correzione qua e là, che nella vastità di tale mondo si andranno solamente perdendo nel mare di informazioni, ma di istituire una vera e propria riforma culturale.
Deve essere messo in atto un programma di riqualificazione su scala nazionale che, per farne comprendere la portata, dovrebbe essere paragonato a ciò che fecero i nostri padri quando decisero di istituire la scuola dell’obbligo.
Investire in formazione nella scuola e nella ricerca
La conoscenza va costantemente alimentata. La crescita personale ed il miglioramento che ne consegue non devono mai arrestarsi, per non rimanere indietro.
Da questo si evince come la migliore scommessa, soprattutto in un periodo di forte difficoltà economica e crisi lavorativa, sia appunto quello di investire in formazione.
Sono almeno quattro (quantomeno i principali) i motivi per cui non si deve pensare di decidere se farlo o meno, ma si deve investire senza discussioni:
- Studiare significa acquisire nuove competenze: il mercato del lavoro è sempre stato in continua e costante evoluzione, processo diventato in realtà una vera rivoluzione in quest’epoca di digitalizzazione. Molti sostengono che oltre la metà dei lavori che esisteranno fra dieci anni, non siano stati in realtà ancora inventati. Si deve essere sempre alla ricerca di un aggiornamento del proprio bagaglio culturale per essere pronti e preparati al nuovo che avanza, ma soprattutto non essere presi in contropiede dai mutamenti del sistema economico e lavorativo.
- Non si cresce mai da soli: partendo dal presupposto che il confronto con le persone è alla base della formazione, una sana competizione o sfida portano ad aumentare la produttività, perché sia i pari che gli insegnanti saranno costantemente intenti a verificare i progressi ottenuti.
- Le competenze sono il biglietto da visita nel mondo del lavoro: investire in formazione, magari con corsi di aggiornamento, significa diventare più competitivi e interessanti per il mercato del lavoro. Acquisire le giuste skills potrà fare la differenza ed aprire molte porte che in caso contrario potrebbero venire precluse. Nel caso si stesse già lavorando, formarsi significherà migliorarsi come persona e in ambito produttivo.
- L’importanza delle relazioni: in un mondo sempre più interconnesso e reticolare, con sistemi sempre più integrati, le relazioni si dimostrano di vitale importanza per il miglioramento. Confrontarsi con persone che lavorano in diversi ambiti lavorativi, apre gli orizzonti verso nuove collaborazioni, perché chiunque potrà essere d’aiuto a chiunque.
Il bivio
Senza fare constatazioni o previsioni che potrebbero apparire troppo pessimistiche, già stiamo camminando, come nazione, su una lama di rasoio.
I numeri parlano chiaro purtroppo: il rapporto OCSE Education at a glance 2017 posiziona ancora una volta l’Italia tra i Paesi che poco investono in formazione. Il Bel paese difatti è il fanalino di coda assieme a Messico e Turchia. Dato allarmante: solamente il 18% degli italiani è laureato: la metà esatta della media dei paesi OCSE.
Pochi, pochissimi quindi i laureati, un esercito di giovani che né lavorano né studiano, una pessima integrazione tra scuola e impresa causati anche da investimenti sostanzialmente inesistenti in formazione e ricerca.
Di questo si deve solamente prendere atto, perché se una scuola di pensiero può essere opinabile, la matematica ed i numeri invece non lo sono.
Si deve tenere conto di una fattore oggettivo: non affrontare un problema, in alcuni casi non ne ritarda solo il trovare una soluzione, ma crea un effetto domino devastante.
In conclusione, chiunque ignori questo problema, porta la società verso l’impoverimento, la sottomissione e la disuguaglianza, in maniera più o meno dolosa o colposa. Il cambiamento e la rivoluzione devono partire oggi, non tra cinque o dieci anni, ma oggi.
- Frederick Winslow Taylor – “L’organizzazione scientifica del lavoro”
- Elton Mayo – “I problemi umani della civiltà industriale”
- Luca Tomassini – “L’innovazione non chiede permesso. Costruire il domani digitale“
- Alessandro Obino – “Risorse-umani 4.0 Perché industria 4.0 e l’avvento dell’era digitale ci rendono sempre più risorse e sempre meno umani“
- Klaus Schwab – “La quarta rivoluzione industriale“
- Digital skills. Capire, sviluppare e gestire le competenze digitali“
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