Quel filo sottile che lega l'inclusione e la mobilità

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Quel filo sottile che lega l’inclusione e la mobilità

“Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini”

Frida Kahlo

di Giovanni Di Muoio

Ci sono molti modi per nascondersi agli occhi degli altri. Il più efficace rimane il silenzio. Ancora oggi non abbiamo interiorizzato la formula che serve a decifrare ciò che le persone esprimono senza esternarlo. Facciamo delle ipotesi, lavoriamo molto di fantasia, a volte ci va bene, altre ancora attribuiamo a quei silenzi una moltitudine di significati che vanno dalla resa incondizionata a essere un controdipendente che mette in atto quotidianamente una protesta che lo allontana da una certa idea di normalità che appartiene al nostro universo parallelo.

Noi, precursori del Metaverso, predichiamo la diversità come bene comune e poi non tolleriamo chi è diverso da noi o chi è portatore di un pensiero divergente e quindi potenzialmente destabilizzante. Tra l’abitudine e la novità scegliamo deliberatamente la prima. Quelli che, ad esempio, negli Open Space occupano sempre il medesimo posto che serve a marcare il territorio come un cane che spruzza gocce di urina sul muretto. Pensiamo che il ragionare ed agire per abitudine sia giusto così e così facendo non facciamo che desertificare l’ambiente circostante.

Le Aziende vivono questo fenomeno con apparente disincanto, quasi fosse tollerato perchè non ha un potenziale impatto sul Business. La stessa famiglia HR non lo considera un ambito di pertinenza occupato com’è, da diversi anni a questa parte, a far quadrare conti che non tornano mai dove la parola costo è il mantra più ricorrente, sfuggente come un serpente a sonagli che si palesa in mille forme e l’espressione ricavi rappresenta un’illusione ottica come un palmizio nel deserto di Atacama. In un ambiente arido il cambiamento non attecchisce perchè il cambiamento ha bisogno di linfa vitale, di cooperazione, di quel meccanismo di condivisione virtuosa che rende ogni singolo individuo funzionale a un progetto di più ampio respiro che abbia davvero senso e non sia espressione di una moda passeggera.

Questo è uno dei pochi ambiti dove la narrazione non ci aiuta nel senso che non basta raccontare i fatti, tracciare profili delle persone, utilizzare algoritmi sempre più sofisticati o applicare quelle quattro regolette che pensiamo essere la panacea di tutti i mali e ci lavano la coscienza come a voler dire ci abbiamo provato. Qui la questione dirimente è tra inclusione ed esclusione ambiti nei quali l’alibi delle sfumature non regge. O si è inclusivi o si è esclusivi e proprio quest’ultimo aspetto ha il fascino maldestro dell’ambivalenza dove il termine esclusivo ha una doppia chiave di lettura ma con significati diametralmente opposti.

Uno degli ambiti dove questo fenomeno si sublima è il sempiterno tema della mobilità. Misurare la mobilità e le ricadute sull’Organizzazione ci fornisce un indicatore che potremmo definire la temperatura dell’Organizzazione. Un’alterazione, come succede nel corpo umano, è indice di malessere e per tale motivo necessita di una cura.

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Mi sono spesso interrogato sul perchè la maggior parte delle potenziali mobilità, siano esse geografiche (oggi in parte anacronistiche) o funzionali falliscono miseramente o quantomeno non producono gli effetti desiderati. Le cause sono molteplici, farei fatica ad elencarle tutte, ma quella che trovo più ricorrente è questa idea che hanno principalmente persone che ricoprono ruoli di responsabilità, di considerare le proprie strutture come dei club esclusivi dove per entrare devi essere accreditato da qualcuno che garantisce per te. Un ruolo che per sua natura dovrebbe essere svolto dalla funzione HR che diventa quindi garante del buon esito della mobilità.

L’opera di mediazione tra interessi che dovrebbero essere convergenti naufraga spesso sugli scogli del pregiudizio, barriera che diventa insormontabile per quell’insieme di sovrastrutture che rendono oltremodo faticosa la messa a terra di un’aspirazione. Chi si professa esclusivo non si lascia prevaricare dal dubbio anzi il dubbio diventa un pretesto per non considerare l’altro.

Pochi, pochissimi sono quelli disposti a investire su persone che si trascinano dietro le proprie ombre o i propri fantasmi, è una dimensione che non si vuole esplorare e dove non si vuole investire in termini di  tempo, di formazione, di challenge. Tutto questo poteva avere un senso nel passato in special modo in contesti molto grandi dove un certo grado di inefficienza  poteva essere tollerata ma ora, con degli Organici che si vanno via via alleggerendo e non solo per esigenze fisiologiche legate all’elevato numero di persone in odore di pensione ma anche per fenomeni più preoccupanti come l’alto numero di dimissioni sul quale dovremmo sempre più interrogarci, occorre considerare con occhi diversi soprattutto chi è diverso da noi, evitando quello snobismo elitario che si cela dietro dei no, che a differenza di quanto affermava Asha Phillips in suo vecchio libro, non aiutano nella crescita non tanto dell’individuo ma dell’intera Organizzazione.

Smettiamola con questa idea da ancient regime che le nostre squadre debbano essere popolate solo da persone alte, belle e bionde magari caricate a molla per non far perdere loro quell’entusiasmo da lavoratori in somministrazione perenne. Davvero possiamo definire partnership quella tra una funzione HR che ha smarrito il suo ruolo di indirizzo riposizionandosi nel contribuire a mettere al centro l’Azienda (come non si sa) e non la Persona e un Business che non si dimostra affatto inclusivo dove la parola inclusivo assume un significato a tutto tondo che può declinarsi nel rifiuto di prendersi cura della persona, della sua demotivazione e perfino della sua diversità? Non può esistere una partnership se questi sono i principi costituenti, forse è più corretto parlare di complicità specialmente nella misura in cui la funzione HR non è in grado di influenzare le scelte miopi del Business.

Prendersi cura degli altri, è innegabile, è forse uno dei compiti più gravosi, non è una competenza, è un’attitudine che spesso non viene considerata quando ci troviamo a dover scegliere dei ruoli di coordinamento. Per questo motivo la questione non è tanto quella di scegliere Tizio piuttosto che Caio e quindi realizzare delle mobilità che abbiano una possibilità di successo, quanto quella di saper individuare a priori dei Capi che abbiano quella sensibilità nel saper riconoscere la possibilità di fronte a un potenziale problema, l’opportunità rispetto al rischio da assumersi.

Ed è allo stesso modo fondamentale saper individuare con altrettanta oculatezza delle figure HR che sappiano davvero essere garanti della virtuosità del processo evitando quell’asservimento emotivo la cui utilità è solo quella di garantirsi la sopravvivenza all’interno di Organigrammi sempre più di difficile comprensione.

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Giovanni Di Muoio
HR Business Partner presso BNL gruppo BNP PARIBAS
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore

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