Fermarsi un attimo prima
“Non hai mai pensato che / per una volta invece di esser curioso / potresti incuriosire tu! / e che invece di partire per girare il mondo / per una volta potresti da fermo / farlo girare tu!”
Luca Carboni, Sexy, in Forever, 1985
La vera sfida, in questi tempi incerti, è la capacità di sostenere gli sguardi di chi in silenzio ci chiede aiuto. E sono tanti. Più di quanto possiamo umanamente immaginare. Ed è singolare a pensarci perchè l’ossessione di essere i migliori in un mondo che bandisce la mediocrità ha scandito nervosamente le nostre giornate senza tempo. Non più l’effimera soddisfazione di aggiudicarsi un traguardo volante quanto una snervante ricerca di arrivare primi al termine della corsa. Primi, sempre e comunque, per i secondi o quelli che verranno dopo nessuna gloria e men che meno ricompense morali. Solo un abbacinante oblio che cancella con un colpo di spugna esistenze che arrivano senza un’oncia di fiato a quel faticosissimo ultimo miglio. Da qualche tempo nel mio dialogare con gli altri cerco storie da raccontare. In alcuni casi sono storie che mi è capitato vivere, più spesso sono storie che tentano di spiegare il lato oscuro della luna, quello che per paura o pigrizia decidiamo di non vedere fino a decidere che quella storia in fondo non è mai esistita e per la proprietà transitiva dell’uguaglianza smettiamo di esistere anche noi. Più semplicemente evaporiamo in una nuvola di fumo, respiro affannato di chi consapevolmente ci passeggia sopra allegramente calpestando non quello che resta di noi ma i nostri ideali, quelli che abbiamo sempre dichiarato di voler difendere strenuamente salvo poi scoprirci disarmati di fronte a un nemico molto più organizzato di noi. Quelle impronte lasciano il segno, non vanno via facilmente, a volte ti marchiano per sempre. Parlarsi addosso monopolizzando certe discussioni argomentando quasi esclusivamente di talento, di persone overperformanti, di successo, rischia di alimentare il fuoco delle illusioni. Le storie, quelle potenti, hanno un forte potere salvifico perchè ci inducono alla riflessione e riflettere significa prendersi del tempo che noi tutti viviamo come un qualcosa di cui vergognarsi, come se stessimo rubando un pacchetto di chewing gum al supermercato. L’obiettivo non è persuadere, non lo è mai stato e lo dichiaro a priori quando mi capita di dialogare con qualcuno, a me interessa che le persone possano trovare il nobile coraggio di fermarsi quando occorre. Una sorta di introspezione guidata in cui l’aspetto emozionale è quello che riconsidera tra le possibilità quella di arrestarsi e non solo quella di andare a testa bassa contro un muro di incomprensioni. E’ qualcosa che va oltre il concetto di resilienza, per certi versi lo precede perchè è quel momento in cui le cose ci sembrano finalmente più comprensibili e riusciamo persino a scorgere l’orlo del precipizio verso il quale stiamo dirigendo la nostra vita. Mi piace ricordare la storia di Alex Bellini che partì dal Perù, con una piccola imbarcazione a remi. L’obiettivo era senza dubbio ambizioso: attraversare il Pacifico per giungere infine in Australia. Da solo, con a bordo 300 kg di cibo liofilizzato e un dissalatore per rendere potabile l’acqua dell’Oceano. Dopo oltre nove mesi di navigazione e 18000 km dietro le spalle, a 65 miglia dall’arrivo (circa 120 km), chiede aiuto e si ferma. Lo fa con una telefonata satellitare a sua moglie Francesca, le dice soltanto “Basta così”. Aveva realizzato di non poter completare la sua traversata per due ordini di motivi. Il primo legato a un severo deperimento del suo fisico debilitato dall’aver perso oltre 15 kg e per finire un diabolico gioco di correnti che rendeva quell’ultimo tratto proibitivo dove ogni pagaiata in avanti in realtà lo allontanava dal traguardo. Quel basta così non rappresenta la cifra della sua sconfitta ma diventa la scoperta del proprio io interiore, vero e unico approdo, il trionfo della consapevolezza, il fazzoletto di terra dove poggiare finalmente i piedi, un gesto che invece di cancellarti dai libri di storia ti eleva a giudice di te stesso. E ti assolvi per aver commesso il fatto e il fatto è che hai vissuto la tua fragilità di uomo combattutto tra gioia e dolore. C’è una parola che di questi tempi usiamo con molta disinvoltura ed è la parola transizione. Fa parte di quel bagaglio di espressioni che vivono il loro periodo aureo e che poi cadranno nel dimenticatoio per far posto ad altri termini. In ambito Organizzativo la si associa spesso alla parola cambiamento proprio per sottolineare la caratteristica di passaggio da una fase a quella successiva. Considerando la frequenza dei cambiamenti che impattano sulle Unità Organizzate potremmo dire che la fase di transizione è diventata ormai strutturale al punto che non fa più notizia. I motivi possono essere i più vari e qui viene in soccorso un aspetto della transizione che non è più circoscritto solo all’ambito organizzativo ma abbraccia la sfera emotiva degli individui. Parliamo quindi di transizione emotiva come a voler sottolineare la necessità di un carotaggio in una dimensione più intima che si sublima attraverso la cosiddetta spinta gentile come teorizzato dagli studiosi Thaler e Sunstein. Gentile non significa arrendevole, si può essere gentili con fermezza evitando di essere percepiti come accomodanti. Ogni transizione che si rispetti ha due fasi nettamente distinte tra loro ma legate a doppio filo da una precisa conseguenzialità. C’è un momento narrativo che riguarda la collettività dove il messaggio deve giocoforza essere comprensibile ai più con caratteristiche di trasparenza, semplicità e impatto. E’ questa la fase in assoluto più strategica, eventuali errori o approssimazioni finiranno per ripercuotersi sulla fase successiva rendendo oltremodo complicato il prosieguo. Subito dopo la partita si sposta su un campo diverso che è quello più squisitamente individuale dove la funzione HR gioca ancora un ruolo strategico. Questo sulla carta perchè la realtà è spesso diversa nella misura in cui la funzione HR viene utilizzata come la testa d’ariete che ha il compito di buttare giù le mura della fortezza meglio conosciuta come resistenza al cambiamento. Manca in sostanza proprio quella conseguenzialità che rappresenta la formula di un successo che si costruisce unicamente in maniera sinergica e non slegata. Se questo è il modo di utilizzare la funzione HR non lamentiamoci della mancanza di autorevolezza e di credibilità che ci portiamo dietro e che ci fa percorrere goffamente una strada in salita con le pietre in tasca. Ciò che deve caratterizzare nel positivo la funzione Hr in momenti di cambiamento e quindi di discontinuità è proprio quella capacità di intercettare la dimensione emotiva della transizione che è inevitabilmente individuale e non appartiene, generalmente, in termini di sensibilità a una linea di Business che a volte di illuminato ha poco o nulla a parte le plafoniere grigio stinto nei corridoi dei casermoni dove elegge domicilio. Il tutto non può ridursi semplicemente in un portare le persone a bordo come se l’Organizzazione fosse l’arca dell’alleanza in procinto di affrontare il diluvio universale. Chi si ferma non è perduto, anzi può essere l’occasione di riflettere sulla propria dimensione di individuo che cambia in un contesto in costante evoluzione. Siamo allenati a questo? Nemmeno per sogno, siamo nostalgici come quei soldati Giapponesi che hanno continuato a combattere anche quando la guerra era finita da un pezzo. Indossiamo il nostro vestito di abitudini che immaginiamo adatto alla circostanza salvo poi scoprire che è fuori tempo e suscita ilarità in chi ci osserva. Così finiamo con l’accettare il cambiamento come una sconfitta pur non avendo partecipato a nessun conflitto se non quello interiore con il nemico più subdolo che c’è, ovvero noi stessi, contro il quale non sappiamo difenderci. Il coraggio di fermarsi e di rimettersi in gioco è un momento gestionale di grande valenza e non può essere derubricato a un qualcosa di routinario. E’ un investimento oneroso e per questo è difficile da far metabolizzare ai vari stakeholders. Offrirsi un’opportunità senza aspettare che qualcuno te la offra è la vera meta del viaggio che siamo tutti chiamati a compiere. Ci vogliono scarpe comode anche per chi decide, consapevolmente, di rimanere fermo.
***
Questo articolo è offerto da:
Altri articoli dello stesso autore