Feedback: servi davvero (come sei)?
Feedback: risorsa o trappola
Il feedback, soprattutto negli ultimi anni, è stato uno degli strumenti (e tra le parole) più utilizzati nel mondo delle risorse umane. Considerato panacea per il mal di performance e motore per la crescita del dipendente, il feedback si concretizza, banalmente, nel dire ad una persona cosa pensiamo della sua prestazione e come potrebbe fare meglio.
Ciò che, però, gli studi dimostrano è che il feedback non aiuterebbe le persone a crescere, anzi. Indicare la strada per il miglioramento è il miglior modo per inibirne il miglioramento.
Perché, allora, si continua ad incentivare al rilascio di feedback (neanche fossero recensioni su Tripadvisor)? Tre le teorie (sbagliate) sottese a tale spinta.
Prima di illustrarle, è bene individuare un fattore comune, ossia l’auto centratura; Io sono esperto e tu inesperto e Il mio modo di fare è lo stesso tuo sono i punti di partenza (sbagliati) del feedback.
1. Teoria della fonte della verità. Le debolezze di una persona sono più evidenti agli altri che alla persona stessa e, quindi, i primi sono legittimati a mostrare ciò di cui si fa fatica a prendere coscienza da soli.
Tralasciando lo studio delle Sacre Scritture (perchè guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? – cit.), gli studi di psicometria (e il buon Einstein illo tempore) hanno evidenziato, però, che tutto è relativo, anche (e soprattutto) il modo di rapportarci alla realtà. Le nostre valutazioni, in maniera resiliente (non c’è formazione che tenga), sono profondamente influenzate da preconcetti e pregiudizi personali (cd. valutazione idiosincratica, confermata dal cd. errore di giudizio nell’ambito della ricerca e selezione). In altre parole, rilasciare feedback significa rilasciare distorsione. Tale pratica, quindi, si concretizza in un errore sistematico, legittimato e reiterato. Solo in un caso tale errore può dirsi nullo e siamo nell’ambito dell’auto feedback (non c’è miglior medico di sé stessi applicato all’HR).
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2. Teoria dell’apprendimento. Insegnare significa colmare un contenitore vuoto; una persona non può che ricevere da altri ciò che manca.
Gli studi scientifici (neurologici, per la precisione) invitano a ricalibrare la rotta. L’apprendimento, infatti, consiste meno nell’aggiungere ciò che manca e più nel riconoscere, rafforzare e migliorare ciò che si ha. Il cervello si sviluppa per tutta la vita, secondo schemi sinaptici diversi da persona a persona, a seconda di inclinazioni personali e contesti ambientali di sviluppo. E’ l’applicazione neurologica del detto chi nasce tondo, non muore quadrato: ognuno tende a migliorare più facilmente negli ambiti in cui si è più capaci. Non solo. La neuroscienza ha dimostrato che l’attenzione posta dagli altri sui propri punti di forza fa da catalizzatore dell’apprendimento (attivando il sistema nervoso parasimpatico e, in tal modo, favorendo la formazione di nuovi neuroni e la diffusione di un generale senso di benessere), mentre il focus sulle debolezze ne causa il soffocamento (stimolando il sistema nervoso simpatico, sintomo di un generale senso di paura e che comporta un indebolimento delle funzioni cognitive, emotive e percettive). L’apprendimento, quindi, si fonda sull’intuizione di ciò che facciamo bene, piuttosto che su ciò che sbagliamo. Va bene superare la propria comfort zone, ma mai sfociare nella panic zone.
3. Teoria dell’eccellenza. Una performance eccellente è universale; pertanto, è scientificamente replicabile.
Lo sport, invece, insegna che l’eccellenza è estremamente soggettiva; in un campo da calcio, ci sono dei ruoli e, all’interno dei diversi ruoli, differenti stili di interpretazione (Andrea Pirlo era soprannominato Il Maestro, Gennaro Gatturo era Ringhio. Due mediani, due stili di gioco, due campioni). L’eccellenza, quindi, è strettamente connessa a chi la possiede, il quale la veste, in maniera unica, del vestito che reputa migliore. Altro aspetto da considerare è che l’eccellenza non è il contrario del fallimento. Studiare quest’ultimo non avvicina alla prima (così come parlare di divorzio ai corsi prematrimoniali non serve a conoscere la ricetta del matrimonio perfetto).
Feedback 2.0: new point of view
Il feedback è morto (parafrasando Guccini)? Certo che no, ma richiede un nuovo punto di vista.
- Dall’insuccesso al successo. Piuttosto che soffermarsi su quanto sbagliato, sottolineare quanto di buono è stato fatto, anche durante la peggiore performance fornita, significa aiutare l’altro a riconoscere la propria eccellenza (e no quella altrui). In questo modo, si facilita la consapevolezza di sé e dei propri meccanismi di azione, da valorizzare e migliorare. Si facilita, in altre parole, l’apprendimento.
- Dall’oggettivo al soggettivo. L’oggettività è da lasciare alla legge. Niente è più credibile della condivisione di ciò che, personale, si è percepito dinanzi all’agire altrui. Comunicare la propria verità trasmette umiltà e autorevolezza, molto più di un giudizio mascherato da oggettività.
- Dal “perché” al “che cosa”. Mai concentrarsi sui perché di una perfomance errata, di un’ansia o di un timore. Meglio concentrarsi sui che cosa. Il punto di vista, in questo modo, si trasferirà da un approccio nebuloso e congetturale ad uno concreto e fattivo, che tenga conto di una linearità temporale precisa (passato, presente e futuro)
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