L’Employer Branding non basta
I bisogni della persona ed il modello ASA
Perché la tua immagine come datore di lavoro può essere attraente agli occhi dei talenti, là fuori nel mercato dei job seekers? Perché il tasso di turnover della tua azienda non vuole saperne di diminuire, mentre continui ad investire risorse e budget nel management delle dimissioni, senza riuscire a trattenere e fidelizzare quei collaboratori il cui contributo è così significativo e che, spesso, andrà poi a vantaggio dei competitors? Soprattutto in quest’ultimo caso, poi, è necessario aggiungere una riflessione: le perdite avranno un impatto ancora maggiore se il collaboratore in questione ha beneficiato di interventi di formazione su competenze specifiche, magari volti al conseguimento di certificazioni tecniche, soprattutto quando si parla di profili del settore ICT altamente specializzati.
Se da un lato il turnover management all’interno dell’azienda è una tipologia di intervento consolidata e che trova un suo spazio definito all’interno dei processi HR, non si può non considerare che la perdita di un collaboratore (o perché no, anche di un profilo manageriale), va a costituire una problematica su due fronti:
- oltre a venir meno la risorsa di per sé, vengono meno anche le azioni formative intraprese nei suoi confronti. Ma il flusso di perdita non termina qui, poiché, come accennato poco fa, a beneficiare degli esiti saranno altre aziende, spesso competitors nello stesso mercato di riferimento.
- Le procedure di turnover management richiedono un impegno considerevole ed un investimento di risorse (umane, di tempo, di budget) per il recruitment di un nuovo collaboratore a sostituzione o per la gestione di una job rotation. Risorse che potrebbero essere altrimenti ottimizzate indirizzandole verso progetti di sviluppo, affinamento della formazione o conseguimento di certificazioni tecniche che potrebbero potenzialmente incrementare la competitività dell’azienda.
A valle di questa premessa, si è delineato quello che è il complesso meccanismo di attraction e retention e del turnover management all’interno dell’azienda, nel caso in cui questa non sia riuscita a fidelizzare, a trattenere e a creare engagement nel collaboratore.
Attraction di nuovi talenti presenti sulla piazza e retention di collaboratori competenti e di spessore costituiscono le due dinamiche alla luce delle quali è indispensabile, per un’organizzazione, lavorare ad un’ottimale strutturazione del proprio employer brand.
In prima istanza è bene considerare una riflessione spontanea e condivisa da molti, ossia che un’organizzazione, prima ancora di rappresentare un business, altro non è che un insieme di individui, vera radice dell’identità aziendale.
Un’affermazione di questo tipo è senza dubbio corretta, ma non basta.
Affinché un’impresa abbia delle significative leve di attrazione e fidelizzazione dei talenti, è opportuno che l’employer branding sia il frutto di una vera e propria strategia studiata ed implementata in modo efficace. Per far sì che ciò si realizzi è necessario creare, o assicurarsi che vi sia, una corrispondenza tra i fattori costitutivi della strategia (cultura aziendale, work-life balance, salario e benefit, contesto di lavoro e product brand) con i quattro bisogni chiave della persona.
Ad esporre tale concetto è stato l’americano Stephen Covey, autore di fama internazionale nella letteratura dedicata allo sviluppo manageriale e personale, nel suo libro The 8th Habit: from Effectiveness to Greatness, che sebbene scritto nel 2004, a monte dei numerosi mutamenti economici, sociali e tecnologici avvenuti, veicola un messaggio di impatto attuale.
I bisogni chiave così descritti ed attribuiti ad ogni individuo sono riconducibili a quattro distinti ordini di fattori:
- gratificazione e soddisfacimento delle necessità primarie;
- appagamento intellettivo, dato dallo sviluppo del proprio potenziale;
- appagamento emotivo e realizzazione del senso di appartenenza ad un contesto cui apportare un proprio contributo e vederlo riconosciuto come significativo;
- identificazione di sé stessi nella vision e nella mission che orientano le azioni di business e costituiscono i pilastri ideologici dell’impresa.
Le necessità così descritte rappresentano la base dello schema operativo di ciascun individuo e non vengono certamente meno nel contesto di lavoro, in cui anzi si affermano maggiormente alla luce dell’impatto della dimensione professionale sui livelli di benessere personali.
All’interno dell’azienda, chi si occupa di Risorse Umane è chiamato quindi a tenere conto di tali bisogni e a dargli attuazione concreta nella strategia di employer branding, che coinvolgerà a cascata anche tutte le altre persone coinvolte nell’organizzazione.
Per far sì, in termini pratici, che questa concretezza prenda forma è bene collegare ciascuno dei quattro bisogni ad una componente strutturale del brand-impresa.
Il bisogno di soddisfare le necessità primarie individuali è riconducibile alla componente del salario e dei benefit ed implica quindi un certo grado di attenzione e consapevolezza nei processi HR che riguardano in particolare gli aspetti di compensation e total rewarding.
La necessità di vedere sviluppato il proprio potenziale, di crescere e migliorarsi trova soddisfazione nella tipologia di cultura aziendale, qualora essa si basi sui valori della crescita e dello sviluppo professionale e venga costituita, rafforzata e soprattutto condivisa da tutti. Un modello di cultura aziendale di questo tipo è presente in aziende che attivano specifici e sistematici percorsi di formazione indirizzati non solo alle prime linee ma anche agli altri livelli degli organigrammi.
Questa scelta ha poi un ritorno strategico per l’impresa che ne avvale, portando un rinnovo delle competenze e dunque un potenziamento dei servizi offerti (che si tratti di business sia B2C che B2B).
La realizzazione del senso di appartenenza al contesto in cui si opera, determina ed è allo stesso tempo causa della motivazione della persona a lasciare un segno, ad apportare un contributo di valore. Ciò avviene con efficacia nel momento in cui vi sia un equilibrio tra i ritmi di lavoro e di vita privata, in assenza del quale l’ overworking protratto nel tempo si traduce nella diminuzione dei livelli di produttività. Il senso di appartenenza ed il commitment da parte del dipendente si riscontrano infatti laddove egli scelga deliberatamente di fare parte di un determinato contesto, e non dove è costretto a trascorrere molte ore malvolentieri. La componente strutturale dell’employer branding cui si fa riferimento in questo caso è il work-life balance.
Il quarto ed ultimo, ma non per importanza, tipo di bisogno, ossia l’aderenza rispetto alla vision e alla mission aziendali, e dunque ai valori, trova risposta nell’identificazione della persona con il contesto aziendale. Il contesto o clima aziendale è un fattore intangibile, ma nonostante questo decisivo in quanto comprensivo delle componenti relazionali, del mindset e delle varie iniziative che caratterizzano la quotidianità professionale delle persone coinvolte. A spingere a riflettere su ciò è la pratica sempre più diffusa nei contesti aziendali mediamente strutturati, infatti, della somministrazione e successiva analisi di apposite survey sul clima aziendale.
Sullo stesso asse delle idee espresse da Covey, in merito alla correlazione tra efficacia della strategia di employer branding ed attenzione ai bisogni del dipendente, si trova il cosiddetto modello ASA ideato da Benjamin Schneider nel 1987, ma anch’esso ancora di estrema attualità e validità.
ASA è un acronimo che sta ad indicare i termini attraction, selection ed attrition.
L’ attraction è quanto si verifica nel momento in cui delle persone si sentono attratte da un’organizzazione con cui condividono valori e princìpi fondanti e desiderano porre le proprie competenze al servizio di essa.
La selection si riferisce a quanto avviene dall’altro lato, vale a dire che un’impresa seleziona tra i candidati coloro che che si fanno promotori del medesimo patrimonio valoriale e che presentano tratti simili a quelli propri di chi è già inserito nel sistema.
L’ attrition, infine, indica l’attrito che si genera tra persona e impresa nel momento in cui le credenze a fondamento sono divergenti e non conciliabili. Tale modello è da ritenersi particolarmente significativo nel discorso in questione, in quanto illustra in modo estremamente semplice come la dimensione interna di un individuo sia in realtà un punto di partenza essenziale nel recruitment per un inserimento armonico ed efficace in azienda. E’ opportuno sottolineare inoltre che il modello ASA è utile all’ employer branding non solo in termine di attraction ma anche di retention, basti infatti pensare al fatto che la selezione non avviene solamente nel momento in cui si ricercano candidati sul mercato, ma anche quando si riconosce la validità del contributo di un dipendente al punto da non ritenere necessaria la sua sostituzione.
In conclusione, nel panorama socio-economico attuale mutevole ed altamente competitivo come quello in cui le aziende sono attualmente inserite, attuare una strategia di employer branding efficace è condizione necessaria ma non sufficiente. A monte della strategia è indispensabile riconsiderare gli aspetti legati alle persone ed avere consapevolezza che una visione unitaria e globale dei bisogni chiave della persona e la loro presa in carico portano ad un incremento dei livelli di benessere e motivazione del dipendente, ed è proprio quest’ultimo fattore ad avere poi un impatto decisivo sul rendimento del singolo e, in una visione congiunta di tutti i collaboratori, dell’azienda.
Bibliografia
- Covey, S., The 8th Habit: from Effectiveness to Greatness, Franklin Covey, 2004.
- Lizzani, G., Mussino, G. M., Bonaiuto, M., Employer Branding tra ricerca e applicazione, Franco Angeli, Milano, 2008.
- Schneider, B., The people make the place, in Personnel Psychology, 40, 1987, pp. 437-453.
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