Employee centric approach

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Employee-centric approach: il 2021 mette al centro le persone

Il 2020 è stato un anno peculiare e faticoso per il mondo del lavoro, tanto in Italia quando negli altri Paesi colpiti dall’emergenza da Covid-19. In un quadro di precarietà e stravolgimenti, stanchezza e demotivazione, sorge spontaneo chiedersi quale sia, per le aziende, la strada da percorrere per superare le difficoltà e riuscire ad attrarre, mantenere e far crescere i propri talenti nel 2021. Un buon punto di partenza? Rivedere l’approccio alle risorse umane, riservando al lavoratore un’attenzione e una centralità tipiche della gestione dei clienti.  

di Alessandra Desii – GoodHabitz

Il dipendente è il primo cliente

La customer satisfaction è alla base di qualsiasi business. Ma con la crescente complessità che caratterizza il mondo del lavoro e le ulteriori difficoltà emerse a seguito della pandemia, le aziende si sono trovate a dover affrontare una sfida più urgente: garantire innanzitutto la soddisfazione e la salute dei propri dipendenti. In questo quadro, quindi, non stupisce che uno dei principali trend HR del 2021 sia proprio l’approccio “employee-centric”. Un approccio che mette il lavoratore al centro e cerca di analizzarne, comprenderne e risolverne incertezze e disagi, allo scopo di migliorare il senso di appartenenza, la produttività e la soddisfazione generale. Come? Grazie alla creazione di un ambiente inclusivo – in cui le opinioni e le inclinazioni del singolo vengono incentivate e valorizzate – e grazie a una nuova attenzione agli analytics anche in ambito HR.   

Una crescente necessità di personalizzazione

Non è certo la prima volta che si riflette sull’idea che sia più efficiente occuparsi del benessere dei propri collaboratori che ripetere periodicamente il processo di selezione a causa di un elevato turnover. Tuttavia, le particolari circostanze del 2020 hanno portato ulteriori elementi di complessità che rendono ancor più urgente la necessità di adottare un approccio orientato al dipendente. 

Smart working, sì o no?

Tra i molti aspetti che la pandemia ci ha costretti a riconsiderare ci sono senza dubbio la necessità di un orario lavorativo standard e il ruolo dell’ufficio. Infatti, se per anni le più grandi organizzazioni del mondo hanno fatto a gara per chi avesse gli uffici più belli e confortevoli, sono bastati pochi mesi di lavoro da remoto per insegnarci che può esserci un modo diverso di lavorare. Ma quale è stato l’impatto di questo cambiamento, in termini di produttività, work-life balance, comunicazione e soddisfazione? La risposta, come spesso accade, è: “dipende”. C’è chi ha sviluppato una buona resilienza e chi ha perso la motivazione, chi ha gestito con successo la propria agenda e chi ha sofferto la mancanza di schemi, chi si è sentito alleggerito da spostamenti inutili e chi privato di preziosi rapporti umani. 

Avere un approccio orientato alle persone aiuta a comprendere che individui diversi hanno reazioni diverse. E che per garantirne il benessere fisico e mentale di ciascuno è necessario che il team HR analizzi i comportamenti dei propri dipendenti e si dimostri aperto ad accogliere le richieste e i suggerimenti di ognuno. Il risultato? Come dimostra questa ricerca di Adecco, le aziende che hanno mostrato cura e attenzione verso i propri dipendenti in questo difficile periodo hanno guadagnato una preziosa dose di lealtà. 

Generazioni a confronto

Un altro aspetto che incentiva a scegliere un approccio al dipendente sempre più personalizzato è la crescente diversità sul luogo di lavoro, in termini di genere, etnia ed età. 

Infatti, se il Coronavirus ci ha dimostrato che è possibile lavorare da remoto, è probabile che sempre più aziende si aprano alla possibilità di assumere talenti al di fuori dei confini e creare team multiculturali. Allo stesso tempo, l’ingresso della Generazione Z nel mondo del lavoro porta a 5 il numero di generazioni che convivono all’interno di un’azienda. In questo modo, si accendono i riflettori sui temi più cari ai post-millennials, come l’attenzione alla salute (fisica e mentale), la necessità di sentirsi parte di un gruppo e il bisogno di ricevere feedback. E al contempo si amplia il divario tra fasce di età in termini di digitalizzazione.

Nonostante alcune peculiarità generazionali, però, secondo Deloitte la soluzione non è ragionare per cluster demografici. Ma, al contrario, perseguire un approccio orientato ad aspettative, opinioni e attitudini del singolo. Anche perché, con la complessità e il dinamismo che governano mondo del lavoro oggi, chiunque – dai Baby Boomer alla Generazione Z – per restare al passo si trova obbligato ad aggiornare le proprie competenze e svilupparne di nuove. 

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Risorse umane: un nuovo ruolo strategico 

Secondo quanto analizzato fino a questo punto, è facile dedurre che un approccio alle risorse umane “unico per tutti” non sia più praticabile. Per garantire il benessere del singolo dipendente, e di conseguenza dell’intera azienda, il ruolo dell’HR Manager deve quindi essere rivisto e ridisegnato. Innanzitutto, è ormai chiaro che il futuro del mondo HR sarà sempre più data-driven. Proprio come avviene nella gestione dei clienti, infatti, per poter applicare in maniera efficace un approccio orientato al dipendente è fondamentale ottenere e analizzare prima i dati sul suo comportamento. Avere informazioni dettagliate su aspetti quali l’assenteismo, il tasso di accettazione delle offerte, gli stipendi medi o le necessità dei dipendenti in termini di formazione personale, infatti, può aiutare a identificare eventuali criticità e prevenire insoddisfazione o burnout. 

Ovviamente, a questo si affianca un crescente bisogno di specializzazione nelle professioni del mondo HR. Man mano che le aziende adottano un approccio employee-centric, infatti, gli HR diventano figure sempre più strategiche per garantire il benessere dei dipendenti in tutte le fasi dell’employee journey. E, pertanto, necessitano di team multidisciplinari, in grado di accogliere al proprio interno competenze sia umanistiche che analitiche e digitali. 

Creare il lavoro dei sogni con il job crafting

In ultimo, un approccio orientato alle persone pone le basi per il job crafting, un’ottima soluzione per combattere l’insoddisfazione e il turnover. Il job crafting risponde a un assunto piuttosto chiaro: “se il tuo lavoro non ti soddisfa, prova a trasformarlo per renderlo ciò che ami”. Una soluzione alternativa per tutti coloro che credevano che l’unico modo per cambiare le cose fosse ricominciare da capo, in una nuova azienda o con un nuovo lavoro. 

Il job crafting può toccare vari ambiti, e si distingue dal job design per la sua natura tipicamente bottom-up. Non si tratta di un percorso di rilocazione proveniente dall’alto, ma di una necessità del dipendente stesso, che sente il bisogno di ridefinire il proprio lavoro su uno o più livelli: a livello di competenze (con attività di reskilling e upskilling), di compiti, di relazioni, di wellbeing o semplicemente di atteggiamento mentale verso la propria azienda e verso il mestiere svolto. 

In questo contesto, quindi, il ruolo dell’HR non è tanto quello di tracciare una strada personalizzata per ciascun dipendente, ma quello di incentivare un dialogo proficuo con i propri collaboratori e portarli a ragionare su ciò che vogliono davvero. In questo modo, HR Manager e lavoratore possono definire insieme un nuovo percorso di crescita personale e professionale che rispetti le inclinazioni e i desideri del singolo e lo spingano a dare il proprio meglio all’interno dell’organizzazione.   

 

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