L'Effetto Alone nella valutazione dei candidati

 

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L’ “Effetto Alone” nella valutazione dei candidati

I selezionatori sono esseri umani

di Alessandra Bidetti

Sebbene l’iter di selezione del personale possa apparire un lineare processo finalizzato all’inserimento in azienda di una risorsa reputata idonea, nella maggior parte dei casi tale iter diviene dimora (o trappola?) per distorsioni (bias) e pregiudizi dei selezionatori, artefici inconsapevoli di un processo selettivo compromesso.

Sono molteplici le distorsioni cognitive che possono invalidare il processo di selezione, tra le più conosciute:

  • l’effetto indulgenza/severità, valutazione del candidato eccessivamente positiva/negativa a seconda dalla maggiore o minore bonarietà del selezionatore;
  • l’effetto di tendenza centrale, assegnazione al candidato esclusivamente di valori medi della scala valutativa;
  • l’effetto primacy/recency, tendenza del recruiter a dare maggior peso alla prima impressione/parte finale del colloquio;
  • l’effetto equazione personale, valutazione positiva/negativa del candidato poiché dimostratosi simile/diverso dal selezionatore.

Una delle distorsioni cognitive più comuni – e, al contempo, inconsce – che possono riflettersi negativamente sugli innumerevoli colloqui di lavoro tenuti dai recruiter è il c.d. “EFFETTO ALONE”, vale a dire la tendenza del selezionatore a “permettere” ad una specifica caratteristica del candidato, positiva o negativa, di inficiare – “allargandosi” come un alone – il giudizio complessivo della risorsa colloquiata.

Fu Edward Lee Thorndike, psicologo statunitense, a coniare per la prima volta il termine “effetto alone” (Halo Effect).

Nel 1920, Thorndike effettuò una ricerca empirica sul fenomeno, dimostrando quanto la valutazione di alcuni soldati fosse influenzata dalla predominanza di una loro caratteristica centrale, la quale comprometteva il giudizio finale estendendosi, in positivo o negativo, sui restanti tratti degli ufficiali.

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Soffermandoci sul contesto lavorativo, potremmo semplificare asserendo che, ove il selezionatore individuasse un determinato tratto del candidato, come ad esempio l’abbigliamento elegante (…l’abito fa il monaco!) o la spiccata proprietà di linguaggio, l’apprezzamento di tale specifica caratteristica porterebbe il selezionatore ad associarvi aspetti e peculiarità interconnesse, giudicando positivamente il candidato…nel complesso!

In tal caso, ci troveremmo dinnanzi ad un tipico episodio di colloquio intaccato dal c.d. effetto alone positivo, in cui, presumibilmente, il recruiter non avrà sondato tutti gli aspetti del candidato utili ad addivenire ad un’accurata valutazione complessiva.

Tuttavia, il candidato, se valutato positivamente per effetto di tale distorsione cognitiva, potrebbe essere richiamato per un ulteriore colloquio o potrebbe perfino ricevere una proposta di inserimento in azienda, nonostante non sia effettivamente adatto a quel ruolo.

Analogamente, ove il selezionatore non approvasse o non apprezzasse positivamente una particolare caratteristica del candidato, l’estensione di tale tratto negativo – c.d. effetto alone negativo – offuscando le altre caratteristiche di colui che viene colloquiato, impedirebbe al recruiter di prendere realmente in considerazione quel candidato per la chiusura del posto vacante, sebbene quest’ultimo si sia dimostrato potenzialmente valido.

A differenza di quanto si potrebbe auspicare, una valutazione oggettiva del candidato resta un’utopia: Il selezionatore è un essere umano, avente inclinazioni, interessi e convinzioni personali. 

Lui, come tutti, è frutto dell’educazione ricevuta, degli ambienti frequentati, degli studi svolti.

Lui, come tutti, ha forse dovuto conformarsi ai più svariati contesti sociali per essere accolto e benvoluto.

Riprendendo le parole del criminologo francese Alphonse Bertillon potremmo dire che «Si vede solo ciò che si osserva, e si osserva solo ciò che già esiste nella mente».

Il colloquio è, pertanto, un incontro tra esseri umani.

Quello che il selezionatore può e deve fare non è valutare oggettivamente, ma valutare quanto meno soggettivamente possibile, sì da far seguire ad una prima impressione legittimamente soggettiva, un’osservazione e una valutazione quanto più oggettive possibili, astenendosi dall’esprimere meri giudizi.

Ma come potrebbe farlo in concreto?

  • Riconoscendo che esistono delle distorsioni cognitive e ammettendo di poter avere dei pregiudizi: l’autoconsapevolezza è la chiave!
  • strutturando l’intervista in base alla posizione da ricercare, ossia stilando un elenco di tratti da sondare ed informazioni da reperire ed utilizzando eventualmente test psicoattitudinali e/o di personalità come punto di partenza o spunto di approfondimento di cui avvalersi durante il colloquio;
  • chiedendo ad uno o più colleghi di partecipare al colloquio: «Soggettivo è quel che un solo soggetto percepisce, oggettivo quel che tutti i soggetti percepiscono» (Davila N.G., “In margine a un testo implicito”, Adelphi, Milano, 2001);
  • ponendo domande oggettive durante il colloquio, che vadano eventualmente a smentire la prima impressione avuta del candidato;
  • rivolgendo l’attenzione (anche) verso sé stesso: Cosa provo di fronte a questa caratteristica del candidato? Perché la provo? Cosa mi condiziona?

Ed ancora: “FLIP IT TO TEST IT” (Capovolgilo per testarlo), tecnica scoperta da Kristen Pressner, Global HR exec presso Roche, relativa alla possibilità di “capovolgere o scambiare mentalmente la persona in un dato scenario con il suo opposto e vedere se suona strano”.

Tale metodo consiste nell’autodiagnosticarsi un pregiudizio, provando ad applicarlo a persone che riteniamo, a primo impatto, simili a noi o adatte ad un determinato ruolo.

«Often organizations want to share that they are taking diversity very seriously and have some sort of goal and say ‘we aspire to have 30% of women in leadership roles’. If you flip it to test it, it would say: ‘we aspire to have 70% men in leadership roles’ – it’s really illuminating». 

Kristen Pressner

Soltanto così, con l’autoconsapevolezza di quanto siano profonde le radici dei nostri pregiudizi inconsci e con un lavoro costante, ma necessario su noi stessi potremo finalmente essere liberi… e sufficientemente oggettivi!

 

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Alessandra Bidetti
Laureata con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore ed attualmente frequentante il Master in Gestione e Sviluppo delle Risorse Umane di GEMA Business School. Fortemente attratta dal valore della autenticità, della diversità e dell’apprendimento continuo. "Da lontano, il miglior premio che la vita offre è l'opportunità di lavorare su qualcosa che valga la pena" - Theodore Roosevelt.

 

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