“Se le vostre azioni ispirano altri a sognare di più, imparare più, fare di più e trasformare di più, voi siete un Leader”.
(John Quincy Adams)
Da molto tempo abbiamo preso coscienza che uno dei vulnus più ricorrenti nelle Organizzazioni, in particolare in quelle di grandi dimensioni, è rappresentato da una cronica mancanza di reattività.
Un gap temporale che da T con 0 (momento in cui si verifica un evento) si sviluppa dopo un percorso a ostacoli verso un T con X dove X rappresenta la misura del tempo intercorso dall’individuazione del problema alla sua messa a terra possibilmente con finalità risolutiva. In realtà definire linearmente il processo decisionale è ingiusto perché si dovrebbe tener conto delle variabili che intervengono nel lasso di tempo che prendiamo come riferimento e che modificano in divenire lo scenario. Più corretto parlare di matrice complessa tanto più complessa quanto più la catena decisionale è lunga.
Potrei sembrare uno che è appena uscito da un Master MBA in formula week end ma la realtà è che trascino nel mio bagaglio a mano di competenze, lunghe ed estenuanti partite a Monopoli con il necessario corredo di probabilità e imprevisti che aggiungevano adrenalina al game. Sono esperienze che ti segnano quasi come un Training on the Job svolto con i pensieri che fluttuavano altrove.
Fatte salve queste premesse (e per inciso di questi tempi l’idea che qualcuno si possa salvare è sempre foriera di ottimismo) c’è un dato che rimane anche in contesti straordinari sottotraccia e che è rappresentato da quel motore silenzioso che al di là dei proclami, delle emergenze e di scenari catastrofici tiene in vita le Aziende.
Uomini e donne il cui senso di responsabilità è impermeabile in senso nobile rispetto a qualunque tipo di evento. Andrebbero tutelati come i panda e celebrati a giorni alterni mentre nei restanti c’è chi li invoca come fossero sciamani. Senso di responsabilità sicuramente ma anche smarrimento, mancanza di direzione, ricerca del senso.
Sono questi gli stati d’animo più frequenti tra i follower e per poterli gestire nel modo migliore occorre farsene carico nel tempo T con O perché se aspettiamo troppo il rischio concreto è quello di andarli a cercare tra le pieghe di una certa burocrazia aziendale fatta di pseudo-tutele e garantismo che ingessa anche le migliori intenzioni.
Uno dei temi più ricorrenti di questo periodo è l’espressione “messa in sicurezza” che di per sé sottintende nobilissime intenzioni. È la traduzione forse un po’ grossolana del più anglosassone “Take Care”.
Sarò una voce fuori dal coro, mi capita di sovente, ma non ci vedo nulla di straordinario. Il confine col buon senso è davvero labile ma mi rendo perfettamente conto che in tempi incerti il buon senso può far notizia fino a diventare un atto rivoluzionario, la scialuppa che recupera i naufraghi nel mare in tempesta. Io mi riferisco alla messa in sicurezza emotiva che è qualcosa di più articolato e che presuppone una presa in carico del problema da Leader e non da Manager meglio se con connotazioni empatiche.
In fondo è facile gettare le colpe sul cosiddetto middle management ma è un modo surrettizio per distogliere l’attenzione dal vero grande problema che è soprattutto un problema di impronta, di stile e per quanto possiamo studiare e metabolizzare i modelli anche quelli più sofisticati ci si riduce spesso a due fattispecie concettualmente divergenti: Inclusione ed Esclusione.
È da qui che si dipana la matassa e quel filo non è invisibile ma consente alle persone di ritrovare la strada come Pollicino che si perde nel bosco. Perché di persone che si sono perse sono piene le Aziende, alcuni giocano a nascondino per anni, altri vagano nel trip del miraggio confidenti che un giorno troveranno la famosa porta con su scritto Exit ma nel frattempo girano in tondo come criceti senza apparentemente stancarsi e senza nessun annuncio che dica loro di presentarsi al box delle informazioni.
Pochi li cercano perché cercarli costa tempo e fatica e quotidianamente dobbiamo alzare la saracinesca consapevoli che i clienti hanno sempre ragione specie quando scrivono sui Social. Ecco spiegato, certamente non in maniera esaustiva, il diverso approccio a cui assistiamo nella reazione, anche emotiva, delle Aziende in contesti critici.
C’è chi compra una pagina intera su un giornale e cristallizza i nomi e i cognomi delle persone che nel frattempo mandano avanti la baracca semplicemente per ringraziarli e chi si affida alle affollate bacheche delle Intranet Aziendali o a liste di distribuzione infinite per veicolare messaggi e aggiornamenti. Esiste poi anche una gestione economica della crisi ma l’argomento è troppo vasto per condensarlo in un articolo.
Sia chiaro, se ci limitiamo alla mera verifica del raggiungimento dell’obiettivo nel breve periodo, entrambe le soluzioni pur se profondamente diverse in termini di ingaggio, possono garantire un certo risultato. La differenza però è la stessa che intercorre tra chi semina e chi raccoglie.
E allora nessuno dovrebbe scandalizzarsi se affermiamo che mai come in momenti di forte discontinuità, di crisi reale, di emergenza, di incertezza nel futuro, le Aziende hanno bisogno come il pane di seminatori, di Leader inclusivi, di buttadentro e non di buttafuori. L’espressione più alta di persone al centro si sublima in situazioni del genere altrimenti rimane un evergreen, uno slogan buono per tutte le stagioni da ingabbiare in una slide.
Credo che l’esercizio dai più invocato della ricostruzione debba essere soprattutto un esercizio creativo che deve giocoforza coinvolgere ogni singolo componente dell’Azienda. In molti casi ci si dovrà preoccupare di riscrivere i valori e se gestita bene questa può essere un’occasione davvero straordinaria di coinvolgimento e quindi di inclusione.
Vivremo tutti una sindrome da pagina bianca da riempire di contenuti e se pensiamo di utilizzare i medesimi frame che hanno riempito i nostri server di documenti che nessuno ha mai letto ma che abbiamo agito col buon senso e la diligenza dell’artigiano allora abbiamo sbagliato in ri-partenza.
Non è quello il gioco a cui dobbiamo iscriverci, non è la partita che saremo chiamati a giocare perché gli affanni che abbiamo accumulato negli anni ci rendono inadatti a quel tipo di competizione, ci manca l’allenamento e soprattutto l’allineamento tra ragione e sentimento.
Un antico proverbio Cinese recita che quando soffia il vento del cambiamento c’è chi alza muri e chi si industria nel costruire mulini a vento. Questa metafora ci aiuta a riempire di significati diversi la parola cambiamento che alla luce degli eventi che stiamo tutti vivendo ha mutato profondamente la sua radice diventando sinonimo di normalità agita e non solo attesa.
Di certo l’unica deriva che dobbiamo evitare è quella dell’immobilismo. Non c’è nulla di più sbagliato nell’aspettare inermi che passi la tempesta, accontentarsi di una tettoia dove ripararsi da questi violenti e improvvisi scrosci di pioggia.
Abbiamo il dovere, non più procrastinabile, di occuparci in maniera strutturalmente diversa di Formazione, un vero e proprio piano Marshall che metta in moto un poderoso processo di riqualificazione anche e soprattutto digitale che dovrà avere come obiettivo principale quello di aumentare la spendibilità delle nostre risorse su nuovi mestieri e nuove attività anche molto lontani rispetto ai modelli di business a cui ci siamo assuefatti nel corso degli anni.
Non commettiamo l’errore di farci ingannare dalle sirene della produttività, pensiamola come una diretta conseguenza ma mettiamo al primo posto l’elemento umano altrimenti la digitalizzazione anziché un’opportunità può diventare una seria minaccia che ha delle preoccupanti similitudini col nemico che combattiamo in questo periodo: è invisibile e rimane silente per lunghi periodi che in fin dei conti sono periodi in cui l’organismo (leggasi Organizzazione) si mostra tollerante.
Succede però che all’improvviso si manifesta in tutta la sua virulenza e spazza via in un colpo solo intere strutture, lavorazioni, processi ma soprattutto persone. Uomini e donne la cui impiegabilità si misura dall’oggi al domani con un drammatico cambio di paradigma: da centro di ricavo a centro di costo.
E capite da soli che non ci vuole il profeta Geremia per disegnare lo scenario nel quale saremo catapultati già oggi, perché la parola domani, che piaccia o no, è già fuori contesto. E nemmeno può consolarci il fatto che molte Direzioni HR su questo, purtroppo, sono allenate, essendosi occupate (preoccupate meno) del tema riduzione costi come contraltare a una flessione fisiologica dei ricavi in un contesto di estrema volatilità.
Ed è altrettanto sbagliato l’approccio che ci induce a trattare questo problema esclusivamente come endogeno perché, che ci piaccia o meno, la vera minaccia è lì fuori, si chiama futuro con un sistema di regole più lasche, con accesso al mondo del lavoro più semplice ma anche meno oneroso per tutti e con retribuzioni sempre più flat, si chiama possibilità di processare alcune lavorazioni in minor tempo, con meno costi e con standard qualitativi più alti anche al di fuori dei nostri confini geografici.
Se questo è lo scenario non possiamo più nasconderci dietro il paravento dei costi sociali di cui devono farsi carico tutti, in primis le Aziende, perché il rischio di una deriva in cui l’etica lascia spazio a freddi ragionamenti di sopravvivenza del business stesso è molto più concreto e attuale rispetto a prima.
L’approccio umanistico di cui si fa un gran parlare di questi tempi è quindi corretto ma va agito subito e non lasciato sospeso come un’eterea dichiarazione d’intenti.Puntare sul racconto è dunque la strategia più efficace che deve avere finalità inclusive anche quando si tratta di raccontare verità scomode la cui decodifica non sempre è immediata.
La differenza sta tutta lì ed è su questo terreno che si giocherà il prossimo game, con la dicotomia distanza sociale e riavvicinamento organizzativo che è speculare ad un’altra dicotomia che è quella tra individuo e collettività che dobbiamo sforzarci tutti di mantenere ad un livello fisiologico di conflittualità evitando che debordi.
Fare tutto questo potendo fare affidamento su Leader autorevoli può accorciare di molto la lunga strada della ripresa.
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