Disimparare le toxic skills
Reverse learning
Quando inizio a leggere un libro tendo istintivamente a fidarmi dell’io narrante e a credere a tutto ciò che scrive, anche a proposito di valutazioni e anticipazioni. Non è andata così con “Memoriale” di Paolo Volponi [1]
Il protagonista, reduce di guerra, racconta della sua vita dopo la prigionìa e del lavoro da operaio ottenuto in una grande fabbrica piemontese. Del tutto persuasa della sua buona fede, mi lascio raccontare di fatti e dell’imminente rovina che lo avrebbe presto colpito per colpa di un certo “gruppo di persone” (altri non sono che i medici della fabbrica che gli avevano diagnosticato una pericolosa forma di tubercolosi).
Procedo quindi nella lettura intenta a scoprire l’inganno, il tranello che da lì a poco gli avrebbero teso ma devo presto ricredermi. Lui, il narratore protagonista, ingannando sé stesso, ha ingannato me: nessuna congiura ma una malattia reale, acuta e contagiosa.
Comincio quindi a diffidare delle sue considerazioni o meglio, a separare le parole dell’essere umano da quelle dell’essere professionale.
Vita da operaio. Vita da reduce.
Dal punto di vista professionale il percorso è chiaro e rivelatorio: l’excursus di un lavoratore, da quando pieno di speranze, è convinto che il lavoro possa essere un volano per realizzarsi, a quando ancora ottimista, sente di far parte di quel progresso incarnato nell’operosità della fabbrica, con le sue macchine e la sua instancabilità, a quando indebolito e disilluso, scopre le due facce della medaglia: su una il progresso del profitto della fabbrica, sull’altra il suo annientamento, la sua non esistenza. Per l’operaio quel lavoro diventa puro scambio di merce, un salario a cottimo in cambio di diventare emuli di quelle braccia meccaniche. Stessi ritmi, stessa produttività.
L’operaio non progredisce, i suoi bisogni rimangono quelli primari, di fame, sete e di quella libertà provenire dall’unico suono capace di sovrastare il continuo e indifferente martellamento, la sirena, licenza di uscire, a ritrovarsi, estranei, nella luce naturale del cielo.
A fare da controcanto alla solidità inespressiva della fabbrica c’è il lago, i due imparagonabili diventano qui parti del paesaggio su cui, una sapiente regia, stacca continuamente.
Il lago rappresenta la fabbrica liquida, costantemente tirato in ballo perché la sua faccia, al contrario dell’altra, parla e anticipa come in una visione, le sorti del destino di chi lo guarda.
Anche dal punto di vista umano, il percorso del protagonista è chiaro: l’esperienza della guerra, anche se poco parlata, gli ha impresso un terrore fin nelle ossa e nel respiro, la voglia di dimenticare, di rinnegare la minima eredità fisica e psicologica. Una vita interrotta che tenta di riprendere ma non esiste continuità. Tutto è spezzato e il presente si popola di fantasmi, torturatori e ostacoli. Una profonda cesura taglia la sua esistenza e sperando di ricucirla con il ritorno alla normalità, si ritrova anello di una catena che non unisce ma imprigiona e approfondisce il taglio.
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Cambiare ruolo
La situazione esistenziale, sociale, storica di Albino Saluggia è intoccabile, non lascerebbe spazio a paragoni e trasposizioni. Guerra e alienazione zittiscono. Eppure la costante narrazione a doppio filo, dentro e fuori la fabbrica, operaio e uomo, soldato e reduce, lago e fabbrica, treno e casa, porta a forzare l’interpretazione ai nostri tempi, a tempi di ruoli, di cappelli che, come diceva qualcuno, siamo chiamati a indossare.
Svolgere un ruolo richiede di mettere in gioco le parti migliori della nostra persona: l’ottimismo, la propositività, l’autocontrollo, la lealtà.
E tutto il resto? Dove la mettiamo quella parte più viscerale e istintiva e quei rovesci del nostro carattere risultanti da vissuti, storie, genetiche, duri a modificare?
‘I difetti, tientili per te!’
E menomale! Se si riesce a tenerli a bada, tiriamo un sospiro di sollievo. Perchè, quando il meccanismo del bilanciamento pende verso i rovesci, aumenta il rischio di contaminazione di quelle spinose ‘toxic skills‘ che hanno il potere di avvelenare gli ambienti. Quelle insicurezze e punte di negatività che, come strana reazione e senso di autodifesa, alimentano pregiudizi, malumori, pettegolezzi, recriminazioni, creando una vera e propria filiera delle ‘cattive prassi’.
In questi casi, dopo una fase detox per depurare da ogni asperità caratteriale, applichiamo la ricetta delle soft skills: il buono di noi miscelato a sapienti tecniche di comunicazione, con l’aggiunta di doti professionali. Il risultato sembrerebbe quello di un prodotto industriale, in cui la genuinità della materia prima è trattata da conservanti artificiali e concentrati vari. Ma è questo che rende gli ambienti di lavoro vivibili e produttivi. I veleni, come noto, non lasciano lunga vita.
Ruoli, cappelli, maschere sembrano evocare atmosfere shakespereane eppure, sono i nostri abiti professionali di scena. É arte o nuova forma di alienazione?