Dire, Fare, Cambiare
“Tu non vuoi cambiare il mondo,
Archie, tu vuoi capirlo per trovare
il modo di riuscire a viverci”
Paul Auster
Secondo le stime di Bain&Co, entro il 2030 circa 150 milioni di nuovi posti di lavoro saranno occupati da lavoratori over 55. In Italia, secondo dati ISTAT, gli over 55 occupati in Italia nel 2023 sono aumentati del 15% rispetto al 2022.
Sul versante opposto, secondo rilevazioni Eurostat, l’Italia è la nazione con la maggiore percentuale di NEET (Not in employment, education or training) che a fine 2022 si attestava al 23,1% circa quattro punti percentuali in più rispetto alla Romania che ci precede in classifica con un 19,8% mentre il paese più virtuoso sono i Paesi Bassi con una percentuale di NEET del 4,8%.
Il 2030, inoltre, è anche la scadenza fissata per l’attuazione dei 17 obiettivi sottoscritti dalle Nazioni Unite e che si concretizza nell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile con impatti rilevanti anche sulle politiche del lavoro. Da che parte vogliamo iniziare? Perché è innegabile che bisogna fare qualcosa di concreto per cercare di invertire una tendenza che ci vede esposti e vulnerabili rispetto ad un contesto più ampio, più competitivo e aggiungerei un po’ più cinico se è vero che il tema di aiutare chi è più in difficoltà non vale per tutti ma risponde a logiche di convenienza.
E noi come sistema Paese abbiamo delle difficoltà. Inutile far finta di nulla. La buona notizia, se può consolarci, è che la responsabilità è condivisa. Siamo sostanzialmente in buona compagnia con responsabilità di tipo pubblico o meglio istituzionali e altre che attengono alla sfera privata, individuale o collettiva che sia. Provo a contestualizzare. L’attuale sistema di istruzione, ad esempio, siamo sicuri che risponda all’esigenza di impiegabilità che hanno oggi le aziende? Oppure la sostanziale disillusione che è palese in quel 23,1% non potrebbe essere spiegata come una reale mancanza di concretezza dell’offerta formativa o anche con un insieme di paletti o vincoli che rendono l’accesso al mondo del lavoro da parte delle nuove generazioni sempre più complicato e sfidante?
La realtà è che ci siamo, come si suol dire, incartati e facciamo una gran fatica a uscirne. L’allungamento dell’aspettativa di vita a cui si è accompagnato un progressivo aumento dell’età lavorativa secondo i dettami della legge Fornero ha fatto sì che la percentuale di over 55/60 presente in azienda sia in costante aumento.
Ragionevole conseguenza dovrebbe essere quella che le aziende prevedano, su questo specifico cluster, delle politiche di gestione volte non solo a garantire livelli di produttività in linea con l’attuale contesto ma a favorire quel necessario travaso di competenze verso popolazioni più giovani che si troveranno in un futuro più o meno prossimo a dover sostituire quelle persone.
Ho parlato di travaso di competenze pur essendo consapevole che il paradigma è drammaticamente cambiato se è vero che oggi le competenze richieste sono profondamente diverse da quelle sulle quali si sono costruiti percorsi di carriera, più o meno specialistici. E allora la questione non può essere risolta come un mero passaggio di consegne o iniziative spesso approssimative di reverse mentoring che abilitano un over 60 a interrogare Copilot sull’importanza di fare attività fisica per combattere la sedentarietà e le patologie correlate e rendono un newcomer un perfetto tappabuchi la cui utilità è legata a una specifica esigenza di adesso e dove la parola futuro, per loro dirimente rispetto alla scelta che hanno compiuto, sparisce dal lessico quotidiano.
Lo schema dentro il quale ci si è mossi nel recente passato fotografa una gaussiana che presenta delle zone d’ombra o di mancato presidio rendendo la gestione del capitale umano qualcosa di più complesso rispetto a prima soprattutto con logiche e metriche diverse. Il paradosso è che alla generazione degli over 55/60 cresciuti con la logica del fare chiediamo con insistenza di cambiare non soltanto ruolo ma attitudini, comportamenti, sistema di relazioni e ai newcomers che hanno nel loro DNA la parola cambiamento chiediamo di fare, di produrre non soltanto per irrobustire le proprie competenze ma per recuperare un fisiologico calo di produttività di chi oggi si trova in una situazione di incertezza o meglio di apparente inadeguatezza rispetto alle competenze che il sistema oggi richiede.
E allora che si fa? Una risposta potrebbe essere quella di prendere consapevolezza del fenomeno, sarebbe già un buon punto di partenza. Sarebbe poi auspicabile orientare le politiche di gestione su due ambiti che sono quelli di recuperare produttività a tutti i livelli che non si traduce semplicisticamente nel fare di più ma probabilmente nel farlo meglio riducendo il numero dei low performer e dall’altro nel far coesistere nelle persone, indipendentemente dalla loro età, entrambe le dimensioni del fare e del cambiare con azioni specifiche e misurabili.
Un compito che da sola la funzione HR non può assolvere ma che agito in sinergia con tutte le funzioni di business può garantire risultati in termini di ingaggio rendendo più fluida e funzionale la convivenza tra più generazioni. Ma c’è un altro dato che ci aiuta a spiegare o meglio a indirizzare alcune scelte non solo di caring ma anche di business. Entro il 2050 gli over 65 rappresenteranno circa il 35% della popolazione Italiana, in sostanza oltre 3 persone su 10 avranno più di 65 anni e l’indice di natalità continuerà a rimanere molto basso se non addirittura negativo.
La considerazione è che dobbiamo arrivarci preparati a questo scenario, sarebbe assurdo, ognuno per la propria parte di competenza, non tenere in considerazione questi dati che ci suggeriscono, nemmeno troppo sommessamente, di una maggiore cura delle persone attraverso modalità di ascolto meno convenzionali e di forma che aiutino le persone a capire il contesto, il campo allargato dove si gioca la partita e non da ultimo le prospettive. Bisogna, in sostanza, iniziare a parlare di futuro in un modo più qualitativo e non fatalista.
E dobbiamo farlo non solo per una questione etica e di inclusione agita ma perché le stesse persone alle quali oggi non dedichiamo probabilmente la giusta attenzione saranno la maggioranza dei consumatori di domani. E orienteranno le scelte di business di moltissime aziende. Quelle stesse aziende che nei fatti si sono dimostrate tiepide nell’accompagnare la transizione che agli occhi di molti è sembrata fortemente sbilanciata verso politiche di caring nei confronti di una minoranza il cui indice di fidelizzazione si riduce sempre di più per via di un mercato in continua trasformazione non solo economica ma anche sociale.
Agire quindi sul balance ci aiuta a capire meglio i reali desiderata delle persone per aiutarli ad affrontare il futuro in modo da avere quegli elementi per comprenderlo e non subirlo. E ricordiamoci sempre, soprattutto noi che abbiamo scelto di occuparci di capitale umano, che ogni persona costruisce il proprio vissuto con le esperienze che ha collezionato e che lo hanno temprato. Ed è una memoria che non si cancella con un colpo di spugna ma si sedimenta, giorno dopo giorno e diventa esperienza.
Come funzione HR possiamo decidere che il tempo faccia il suo corso e sistemi le cose naturalmente (visone fatalista e romantica) oppure possiamo incidere nel provare a trasformare il vissuto (e percepito) delle persone in un’esperienza che dura anche dopo che tutti hanno preso strade diverse (visione realistica e di contesto). Non provarci nemmeno ha il sapore di un’occasione mancata.
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L’articolo è ricco di elementi e riesce difficile coglierli tutti se non in un’ottica complessiva che si traduce nel “dove pensiamo di andare se non investiamo sulle nuove generazioni, e in tempo”.
Più di tutti mi coinvolge il termine “fidelizzazione” che di solito si utlizza verso i clienti, i partner o chicchessia coinvolto nel business: in questo caso sono le nuove e future generazioni che la trasformazione la vedono, la percepiscono ma non la agiscono.
Gli scenari di chi comporrà la popolazione italiana che lavora da qui al 2050 – e manca solo un quarto di secolo –sono inquietanti, ma non bastano a rendere il quadro davvero preoccupante: si parla di competenze, anch’esse obsolete, di rilancio della produttività in evidente calo, di sfiducia dei giovani che ingrossano le file dei NEET , sigla orrenda che etichetta i disillusi e gli impotenti.
Fare qualcosa e farlo subito: l’articolo ha messo sul campo tutti i risvolti del fenomeno da cui ricavare le cause che devono essere oggetto di “cura” del sistema Italia.