I differenziali generazionali in ambito organizzativo: scienza empirica o pseudoscienza?
La teoria delle coorti generazionali nel campo della sociologia è stata influenzata in gran parte dal lavoro di Karl Mannheim. Ha scritto un saggio nel 1923 sulle differenti generazioni sottolineando come gli individui, quando nascono all’interno dello stesso periodo storico e dello stesso contesto socioculturale, condividono eventi ed esperienze comuni. La teoria delle coorti generazionali, secondo Mannheim (1970), ci illumina sulla natura molteplice del tempo, che nasce dalla fusione reciproca di due differenti calendari: quello appartenente al ciclo di vita personale (età biologica e fase del ciclo di vita), e quello appartenente al periodo storico/contestuale. Lo studio sulle coorti generazionali è stato un argomento di interesse per diversi decenni, e ancora oggi è un argomento molto dibattuto.
In particolar modo esistono moltissimi studi in letteratura sulle coorti generazionali legate al mondo del lavoro. Il dibattito sui differenziali generazionali in ambito organizzativo ha avuto origine dalla formulazione della teoria generazionale di Strauss-Howe (1991), la quale afferma che gli individui che abbiano vissuto, negli anni della giovane età adulta, i medesimi eventi sociali, politici, economici e ambientali, finiranno per esibire pattern comportamentali, credenze ed atteggiamenti simili, in ragione di quegli episodi significativi vissuti e sperimentati nel periodo della vita dell’individuo nel quale avviene il più consistente e rapido sviluppo cognitivo. Questa teoria pone le fondamenta per il filone di letteratura che da quel momento si è dedicato allo studio dei differenziali generazionali e, in particolare, come questi possano influenzare le performance delle organizzazioni nelle quali convivono lavoratori che appartengono a generazioni temporalmente molto distanti tra loro.
La risposta del mondo accademico è stata perlopiù caratterizzata da scetticismo. I dubbi principali sulla teoria delle corti generazionali sono dati dall’esistenza di una serie di stereotipi originati da percezioni personali, i quali trovano una debole base empirica. Si osserva infatti come gli studi svolti con il tentativo di realizzare un supporto empirico alle caratterizzazioni generalmente attribuite alle differenti generazioni presentino limitazioni evidenti, tra le quali campioni di ridotte dimensioni, campioni di neolaureati categorizzati ingiustamente come coorti generazionali, dati sul singolo periodo che non considerano gli effetti prodotti da un’accresciuta età del lavoratore, e questionari “self-reported”. Inoltre, i risultati degli studi sono contrastanti, in alcuni casi addirittura diametralmente opposti. In ultimo non c’è un’uniformità in letteratura per quanto riguarda i nomi e i periodi temporali assegnati alle varie generazioni. Molti hanno criticato apertamente l’ipotesi avanzata da Strauss e Howe, descrivendola come eccessivamente deterministica e non supportata da adeguata evidenza empirica (Jones, 1992); altri addirittura l’hanno etichettata quale una “pseudoscienza” (Lind, 1997). I medesimi teorici affermano come non sia sostanzialmente possibile discernere l’effetto su atteggiamenti, comportamenti e valori dell’appartenenza ad una generazione rispetto ad eventi connessi alla fase del ciclo di vita o della fase della carriera professionale dell’individuo.
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Una review sistematica della letteratura relativa alle differenze generazionali condotta da Woodward, Vongswasdi e More (2015), rileva che solamente il 34% dei 50 studi intergenerazionali esaminati evidenziano differenze significative tra generazioni. Il 61% degli studi ha invece rilevato risultati misti, identificando più similarità, che differenze. Si rileva come l’evidenza in merito all’esistenza di differenze intergenerazionali in termini di valori e atteggiamenti lavorativi, nonché di preferenze in termini di caratteristiche dell’attività lavorativa, sia perlopiù aneddotica. Inoltre, nonostante esista sufficiente evidenza del fatto che le attitudini nei confronti del lavoro rimangano stabili indipendentemente dalla fase della carriera lavorativa individuale (Hewlett et al., 2009), alcuni autori affermano ciononostante che queste siano influenzate dallo stadio della vita del lavoratore (Deal, 2007; Jurkiewicz, 2000). Per esempio, un lavoratore potrebbe esibire un maggior desiderio di bilanciare lavoro e vita privata nel momento in cui pianifichi di costruire una famiglia (Woodward et al., 2015).
Ciò nonostante, stereotipi e congetture sono “comunemente accettati” nel mondo del business: varie interviste ad executive e manager hanno evidenziato, per esempio, come rappresenti una percezione comune che gli atteggiamenti e i comportamenti che caratterizzerebbero i Millennials siano inefficienti, inefficaci o addirittura immorali. Alcuni studi dimostrano come i Millennials e la generazione Z essendo cresciuti in una società fast food, e con videogiochi che richiedevano un impegno temporaneamente breve per raggiungere il livello successivo, si aspettano rapide promozioni. Se tutto ciò non avverrà secondo le loro aspettative non si faranno scrupoli a cambiare organizzazione. Altri studi contrastano con questa affermazione, lasciando una sorta di aurea misteriosa intorno all’aumento del fenomeno del job hopping: siamo sicuri che il job hopping di queste nuove generazioni sia dato dalle differenze generazionali e non da altri fattori?
Nei casi più eclatanti, false percezioni e stereotipi si tramutano spesso in sentimenti di ostilità e sfociano in episodi di discriminazione per i lavoratori appartenenti a quelle generazioni alle quali si associa la terminologia meno lusinghiera (Gargouri & Guaman, 2017).
Alla luce di una sostanziale incertezza in merito all’effettiva esistenza di differenziali generazionali, il compito del management sarà quello di agire nelle vesti di un “sarto”, predisponendo strumenti e strategie di gestione delle risorse umane “tailor-made”, adeguate specificamente per il singolo lavoratore, il quale, molto probabilmente, esibirà bisogni, desideri e comportamenti unici e irripetibili, indipendentemente dalla generazione di appartenenza. Ciò che rappresenterebbe una minaccia per gli esiti organizzativi non sarebbe dunque l’esistenza di sostanziali ed effettivi differenziali generazionali e la presenza di un conflitto tra di essi, bensì la tendenza del management a considerare un “dato di fatto” molti degli stereotipi che generalmente vengono associati ad individui appartenenti ad una determinata generazione, ovvero che hanno una determinata età. Il management, e i professionisti delle risorse umane in particolare, dovranno aver cura di non inciampare in pregiudizi e stereotipi originati da credenze popolari e da teorie non adeguatamente sostenute da ricerche empiriche. I professionisti delle risorse umane dovranno piuttosto accertarsi che le strategie messe in atto per l’attraction&retention, la motivazione e il commitment dei lavoratori siano costruite e progettate per conseguire gli standard di performance richiesti per ciascun lavoratore. Le caratteristiche personali, fisiche, psicologiche e sociali che ogni lavoratore esibisce finiscono per determinarne i comportamenti lavorativi, e dunque il contributo che sono potenzialmente in grado di apportare alle finalità organizzative: e ciò avviene indipendentemente dalla generazione di appartenenza.
Potrebbe dunque sembrare che il tentativo di predisporre soluzioni organizzative per la gestione dei differenziali generazionali sia inutile o tuttalpiù superfluo. Tuttavia, risulta prematuro giungere a questa conclusione, in quanto il dibattito sull’argomento è ancora acceso e non è tuttora possibile affermare con certezza l’insussistenza di effettivi differenziali generazionali. Si attendono dunque i risultati della ricerca futura. Uno dei modi con cui si potrebbe avviare a questo problema è attraverso uno studio longitudinale e capire se questi valori e atteggiamenti lavorativi cambiano o meno nel tempo (controllando la variabile della fase del ciclo di vita e di carriera), ma fino a quando non ci sarà uno sviluppo adeguato della ricerca per ciò che concerne questo specifico argomento, si consiglia di utilizzare cautamente questi dati sulle differenze generazionali.
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Bibliografia:
- Deal, J. J. (2007). Retiring the generation gap: How employees young and old can find common ground (Vol. 35). John Wiley & Sons.
- Gargouri, C., & Guaman, C. (2017). Discriminating Against Millennials in the Workplace Analysis on Age Discrimination Against Young Adults. Journal of US-China Public Administration, 14(1), 38-45.
- Hewlett, S. A., Sherbin, L., & Sumberg, K. (2009). How Gen Y and Boomers will reshape your agenda. Harvard Business Review, 87(7-8), 71-6.
- Jones, G. L. (1992). William Strauss and Neil Howe’s Generations: The History of America’s Future, 1584–2069. Perspectives on Political Science, 21(4), 218.
- Lind, M. (1997). Generation gaps. The New York Times. Retrieved from https://archive. nytimes. com/www. Nytimes com/books/97/01/26/reviews/970126.26 lindlt. html.
- Mannheim, K. (1970). The problem of generations. Psychoanalytic review, 57(3), 378-404.
- Strauss, W., & Howe, N. (1991). Generation Z.
- Woodward, I., Vongswasdi, P., & More, E. (2015). Generational diversity at work: A systematic review of the research.
- Paolo Lacci, Francesco Rotondi (2020) “Generazione Z e lavoro. Vademecum per le imprese giovani” – Editore Franco Angeli
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