Il razionalismo critico di Karl Popper applicato al change management

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Perché è sacrosanto criticare la tradizione?

Il razionalismo critico di Karl Popper applicato al change management

di Giuseppe De Petra

Nel luglio del 1948, nel corso di una conferenza al Magdalen College di Oxford, Karl Popper espose la sua “teoria della tradizione” nel campo della filosofia della scienza, teoria che ancor oggi chiarisce uno dei fondamenti concettuali dell’epistemologia. Con quella formulazione, egli volle sottolineare quanto fosse importante, per il progresso scientifico e, più in generale, delle nostre consapevolezze, l’atteggiamento critico. Ora, che vuol dire esattamente critico? E verso chi o che cosa bisognerebbe esserlo? In seno alle conoscenze scientifiche, l’aggettivo kritikós non ha certo l’accezione deteriore che comunemente gli attribuiamo, quella, per intenderci, che si richiama alla becera cultura dell’alibi, della lamentela continua o del pronunciamento sommario, cavando fuori certe ragioni senza sugo, per utilizzare una locuzione cara al Manzoni.

La critica è invero ciò che risponde alla nostra facoltà intellettiva di giudicare ed esaminare sempre in vista di un miglioramento, di un accrescimento dei saperi e delle competenze. La critica è quindi il dibattito, è il confronto sempre aperto verso le teorie, gli asserti, i metodi e le congetture. Con quella tesi, Popper contrassegnò così la necessità di assumere quell’atteggiamento versus la cosiddetta “tradizione”, cioè quella cornice di riferimento, come lui stesso la definì, alla quale le comunità scientifiche normalmente si rifanno. Una cornice altro non è che il simbolo di tutti i paradigmi intellettuali e metodologici che troppo sovente ed erroneamente si reputano inoppugnabili. Il mito della cornice si traduce quindi in un dogmatismo al di fuori del quale, com’è facile immaginarsi e per ragioni oscure, non è dato spingersi.

Nelle “migliori” tradizioni scientifiche, si accolgono infatti come verità le prassi, ma, ancor peggio, le ipotesi, le opinioni e le prospettive da cui si osserva la realtà, incondizionatamente, più spesso inconsapevolmente, e quasi ad opera dell’imitazione. Si legga altresì l’altro mito, quello della caverna, narrato nel settimo libro de La Repubblica, dove Platone ci mostra come il mondo della nostra esperienza è in realtà solo un’ombra, un riflesso di un mondo “reale”. Ciò che infatti il prigioniero del racconto vede, non è la realtà effettuale o la verità, ma le loro ombre riflesse sulla parete della roccia.

Poche, a dire il vero, sono state quelle Scuole che hanno invece saputo dare respiro allo spirito e alla revisione critiche, alla messa in discussione dei loro principî costitutivi. Una di queste, per esempio, fu la scuola ionica di Talete, per evocare la ‘prima’ filosofia, nella quale l’allievo era invece pedagogicamente esortato al dissenso.  Detto questo, quando si accetta passivamente la tradizione, viene allora meno il razionalismo critico che ci ha lasciato in eredità Popper, cioè quell’abito mentale che ci rende autonomi di fronte alle scelte e ci fa approdare, come la falsificabilità di una teoria, al rifiuto, o quanto meno ad un compromesso, della tradizione stessa. Ma in ogni caso, la ‘tradizione’ dobbiamo conoscerla e comprenderla bene prima di poter essere in grado di criticarla. È certo molto difficile affrancarsi del tutto dalle sue pretese cogenti, ma ciò non ci esime, in ultima analisi, da una sua accettazione critica.

Tutto ciò si verifica nella giurisdizione delle scienze, tuttavia – e a ben vedere – quel dogmatismo che dovremmo sempre affrontare criticamente è lo stesso reiterato assolutismo che si mostra indisturbato nelle nostre aziende. Ora, il dogma non è la tradizione, questo è vero, ma la tradizione può assumere talvolta tutti gli attributi di un dogma. E questo è altrettanto indubitabile.

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Per tradizione intendo quel sostrato storico di valori, memorie, consuetudini, notizie e testimonianze che si succede e si accresce tra generazioni. Ogni tradizione, per questa ed altre ragioni, è figlia di un determinato ambiente, e di quell’ambiente è l’espressione più eminente. Infatti, come apprendiamo dalla sociologia e dall’antropologia culturale, è un fenomeno, per sua natura, non suscettibile di trasferimento, non può essere cioè traslata da un habitat all’altro, né tanto meno può essere riprodotta su scala. Ed è esattamente da questo suo temperamento inalienato e inalienabile – così mi piace definirlo – che deriva l’unicità di un’organizzazione, pur ammettendo che tra le innumerevoli realtà imprenditoriali vi siano non poche uniformità e analogie nelle dinamiche del lavoro e in particolar modo delle relazioni. In ogni contesto organizzato sussiste e resiste sempre una tradizione, un humus relazionale e psichico e una visione del mondo sui quali si sedimentano i valori, i convincimenti più profondi, le norme comportamentali, le proscrizioni e le prescrizioni più o meno tacite.

In un’impresa, come in una collettività tout court, la tradizione detiene una funzione “sociale”, prim’ancora che lavorativa, indiscutibile – le cui scaturigini sono da ricercarsi nei caratteri e nelle personalità dei loro padri costituenti, gli imprenditori, con le loro forze, le loro energie, i loro ingegni, le loro intuizioni e i loro slanci, ma anche con le loro paure, le loro fissità, i loro (falsi) miti e con le loro dottrine manageriali non sempre opportune ma che vantano come indefettibili.

Essa per lo più la si accoglie, la si presume esemplare, la si ammette come vera e le si ascrivono una validità ed una costituzione tanto incrollabili quanto irrinunciabili, a prescindere da certune evidenze che la smentirebbero in un sol colpo. Ciononstante, la tradizione resiste spavaldamente e, anzi, si instilla nelle menti quasi abbarbicandosi su di esse, impenetrabile, e si traduce nella formula consueta del “qui abbiamo sempre fatto così!” oppure del “qui si fa così!”. Questo accade per il motivo di cui sopra, e cioè perché viene a mancare – e non dimentichiamocelo mai – quel raziocinio capace di riscattare il libero pensiero, di mettere in discussione ciò che si ammetteva come una professione di fede, e quindi di osare l’inosabile e sottoporre, a ragion veduta, anch’essa ad un riesame. Il “razionalismo critico” sovverte il noto e magnifica, oltretutto, il valore formativo dell’epochè, cioè la capacità e la facoltà di sospendere il giudizio, considerando la realtà senza preconcetti ostacolanti, per mezzo di un mindset dinamico che ci epurerebbe dalle sovrastrutture e si contrapporrebbe a quella rigidità ben più angusta e perniciosa che non ammette alterazioni, modificazioni, emendamenti, discussioni né ripensamenti di sorta.

La tradizione di un’azienda, come nelle società, è il retroterra degli usi e dei costumi, delle abitudini, delle consuetudini e delle comfort zone dei suoi attori più o meno protagonisti, ma, oltre a questo, rappresenta una più radicata e pervasiva cultura organizzativa che trae la propria linfa da quella più squisitamente manageriale, cioè dal suo esecutivo. Si può quindi affermare che rappresenti la sintesi di una forma mentis che prorompe dapprima da un imprinting remoto, dalla vis imprenditoriale del fondatore, e poi, via via, dalla dirigenza, dai vertici, fino a scendere al middle management per giungere alla base.

Chiarito questo, quel suggello primigenio si consacra pertanto nello status quo aziendale.

Ora, la questione che qui si fa strada è quella del change management, cioè del cambiamento organizzativo e sul se, come e quando vada realizzato. Non è mia intenzione approfondire qui un soggetto di portata così vasta, ma l’affaire è certo legato mani e piedi alle tradizioni, cioè ai modelli di riferimento. Questo spiega perchè l’iter manageriale e consulenziale del cambiamento sia in realtà di gran lunga molto più disagevole di quanto si immagini e non possa realizzarsi con degli innesti approssimativi, con delle forzature o con la semplicistica formalizzazione di qualche protocollo interno. Prima di tutto, e ben più che un insieme di operazioni, il change management risponde ad un più esteso, labirintico e – credetemi – tormentato processo che investe per prime le persone, le risorse umane, imponendo loro delle scelte precise e talvolta dei mutamenti radicali tanto sul fronte organizzativo quanto soprattutto su quello comportamentale e valoriale. Tutto ciò fa sì che il cambiamento di status esiga, prima o poi, l’urto con la sfera psichica ed emotiva dei suoi protagonisti, muovendo dagli atteggiamenti, dalle mappe cognitive e dai rigori del pregiudizio. Ma la collisione più spietata è forse proprio quella con la tradizione, con i suoi decreti atavici, venerabili ed inviolabili, e con i quali bisogna cominciare prima o poi a fare i conti, senza più tabù e articoli di fede.

Dobbiamo però anche ammettere, in conclusione, che la tradizione sia parimenti un caposaldo antropologico per tutti quanti noi; lo è negli innumerevoli scenari del nostro esistere sociale. Esprime il nostro orientamento poiché fa parte della nostra formazione che da essa muove. La tradizione narra le nostre vite, la nostra storia e le nostre aziende. Ma se e quando l’universo comincia a farsi angusto, ecco allora che anche la cornice andrebbe sine ira et studio sottoposta a ravvedimento operoso, ad una verifica che possiamo e dobbiamo mutuare dal razionalismo critico di Karl Popper che è, per noi e per la nostra cultura, anche organizzativa, il suo più grande lascito intellettuale.

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Giuseppe De Petra
Consulenza & Formazione Manageriale e HR
Giuseppe De Petra è docente libero professionista e senior consultant nell’ambito della formazione e della consulenza manageriale per lo Sviluppo Organizzativo e l’HR Management. È autore del libro “I tre apprendimenti circolari per il management 5.0 – Il modello della Leadership Generativa tra Change Management ed Engagement Organizzativo". Dal 2003 realizza progetti e attività di sviluppo organizzativo per le piccole, medie e grandi realtà imprenditoriali del territorio italiano. Collabora con le più importanti società di consulenza e di training. Scrive articoli su questo blog in tema di Management, HR, Leadership e Comunicazione organizzativa.

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