Continueremo a negoziare

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Continueremo a negoziare

Meglio dieci anni di trattative che un solo giorno di guerra”.
Andrej Andreevič Gromyko

di Giovanni Di Muoio

Tutti ci siamo trovati a dover negoziare qualcosa. Non a molti riesce facile, per alcuni è addirittura una forzatura, un’azione violenta, perché la loro idea di mondo è molto ben definita e non c’è spazio per le sfumature o per i forse e i dipende. Vedo un oggetto, ha un prezzo esposto, lo compro e me ne vado. Questo schema ci appare semplice perché la negoziazione di fatto è totalmente assente.

La realtà – per fortuna mi verrebbe di aggiungere – è un po’ diversa perché ci costringe quotidianamente al confronto e all’interno di ogni confronto si sviluppano sentimenti spesso contrastanti anche senza necessariamente arrivare a situazioni potenziali di conflitto. La storia ci insegna molto su questo versante e spesso lo dimentichiamo presi come siamo da una quotidianità fagocitante dove negoziare significa guadagnare una rendita di posizione. O magari cercare di non perdere quella che abbiamo conquistato con fatica.

Nelle organizzazioni è molto frequente, anzi è probabilmente l’attività che ci vede maggiormente impegnati. I progetti, gli obiettivi, i task, l’execution sono laterali rispetto all’energia che impieghiamo per negoziare il nostro presente ma soprattutto il nostro futuro. Verrebbe quindi normale chiedersi se l’arte di negoziare sia una competenza da allenare o rimanga confinata nella library delle soft skill attitudinali che periodicamente qualcuno lucida come si fa con l’argenteria.

Difficile dare una risposta dirimente perché è uno di quegli aspetti ambivalenti che hanno a che fare sia con la dimensione personale che con quella connessa al ruolo che svolgo e alle competenze che esprimo. Sull’arte di negoziare sono stati scritti centinaia di libri, ognuno dei quali ha fornito un contributo scientifico e metodologico per spiegare il fenomeno e cercare di trovare delle soluzioni per poter ottenere il massimo in fase negoziale.

Ma ce n’è uno che li sbaraglia tutti ed è forse il più antico che conosciamo e che varrebbe la pena ogni tanto di riprendere anche per cercare di pareggiare i conti con una materia – la Storia – che il più delle volte abbiamo odiato per quel modo nozionistico in cui veniva affrontata e che costringeva molti di noi a mandare giù a memoria nomi e date. L’autore è Tucidide, generale dell’esercito Ateniese, che ad un certo punto decise che la Guerra del Peloponneso necessitava di essere raccontata. E lo fece con grande disciplina e applicazione finendo con lo scrivere un’intera enciclopedia composta da otto volumi, l’ultimo dei quali fu terminato da Senofonte perché Tucidide morì prima di terminarlo.

Senza scomodare Omero, che nello scrivere o raccontare l’Iliade aveva gettato il seme per trasformare una storia epica in un manuale dove erano riportate una serie di informazioni di natura pratica, con Tucidide assistiamo alla creazione di una nuova disciplina, la storiografia, ma la particolarità di quell’opera, che resta attuale anche dopo migliaia di anni, è la partecipazione emotiva che in alcune parti trasforma lo storico in un narratore, come se all’improvviso l’autore avvertisse la necessità di abbandonare quella specie di osservatorio distaccato per dare corpo e voce ai personaggi che animano la battaglia.

Tutto si sviluppa sul dualismo tra Atene e Sparta. La prima emblema della democrazia, dell’agorà, di cultura diffusa, di grandi marinai. Sparta l’esatto opposto, un popolo governato da una ristretta oligarchia composto essenzialmente da guerrieri, con una solida tradizione bellica, una macchina pressoché perfetta dove non c’era spazio per nessun’altra cosa che non fosse la guerra. Così inizia una lunga fase di conflitto per dimostrare chi fosse la più forte potenza tra le due.

Le guerre, si sa, si fondano sulle alleanze. Atene era riuscita faticosamente a creare una federazione garantendo agli alleati una certa autonomia nel governare. Nonostante questo, una piccola isola delle Cicladi – Melo – dichiarò di volersi staccare da Atene e assumere una posizione di neutralità. Scelta che noi immaginiamo democratica sulla falsariga del modello Svizzero. Ai Meli in fin dei conti della guerra non importava nulla, avevano raggiunto una certa stabilità sociale, l’economia sembrava funzionare e non c’era nessun motivo apparente per prendere posizione tra Atene e Sparta.

Tra l’altro, andando ancora indietro nel tempo, Melo era stata fondata da una colonia di Spartani per cui il loro DNA, ad essere sofisticati, avrebbe suggerito loro di immaginare gli Spartani come naturali alleati e non certo Atene. Ma nel dubbio gli oligarchi decisero che la neutralità fosse la scelta migliore. La notizia arrivò in fretta ad Atene che decise di intervenire per ricondurre Melo sotto la sua ala protettiva. Lo fece mandando qualcosa come trenta navi con migliaia di soldati pronti ad intervenire ma prima di dare corso al conflitto fu tentata una mediazione, la prima grande mediazione che la storia ricordi e alla quale Tucidide diede voce.

Ora, per sintetizzare, il tentativo di trovare una soluzione pacifica non si realizzò per una sorta di intransigenza da parte del popolo dei Meli che ebbero modo di spiegare le loro ragioni in maniera molto pacata ma ferma, arrivando anche a scomodare il favore degli Dei e invocando, in caso di attacco, l’aiuto di Sparta che mai avrebbe accettato l’invasione di un territorio a loro non ostile per le ragioni storiche sopra citate. Gli emissari di Atene fondarono tutta la loro strategia di mediazione sul fatto che i Meli non disponessero di nessun potere negoziale stante l’enorme disparità delle forze in campo. Una piccolissima isola contro una grande potenza, come se ai Mondiali di calcio si sfidassero il Brasile e la Repubblica di San Marino.

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Ma nonostante questa dichiarazione d’intenti la fase negoziale proseguì in maniera serrata e ognuna delle parti cercò di far prevalere le proprie ragioni. Melo non si piegò alle condizioni dettate da Atene e si dichiarò pronta a combattere e a soccombere per una questione di dignità e di coerenza ai propri valori. Le cose poi presero una piega drammatica perché Atene, preso atto del fallimento di ogni trattativa, intervenne con la forza di fatto sterminando l’esercito e riducendo in schiavitù donne e bambini. Fine della mediazione e fine della storia.

Sembrava un finale già scritto prima ancora di imbastire una trattativa. Era evidente che le forze in campo fossero fortemente sperequate ma l’idea di trovare un momento per discuterne accende una luce nuova nelle dinamiche di guerra e quel momento Tucidide lo racconta in maniera diversa, quasi in forma teatrale, enfatizzando l’aspetto umano di chi si prende la responsabilità di una decisione così importante.

La negoziazione magari non nasce in quel momento ma quel modo di narrarlo è uno spartiacque che ci fa riflettere su quanto sia importante e strategica la narrazione d’impresa alla quale finiamo per dare spesso una valenza di poco conto, come se fosse qualcosa di marginale quando invece è l’arte di mantenere legate persone e strategie attraverso modalità partecipative di comunicazione.

Se proviamo a spostare il focus sulla funzione HR ci accorgiamo che il tema negoziale ha una storia molto più recente. Segue, in sostanza, l’evoluzione di questa funzione che nasce come struttura fortemente decisionale, una sorta di esercito di custodi del tempio, con un’impronta decisamente autoritaria. Una funzione spesso temuta perché aveva nelle sue corde la possibilità di decidere in autonomia il destino di molte persone o semplicemente perché si palesava nei momenti di criticità intervenendo per riportare ordine in un contesto che non contemplava la possibilità di uscire fuori da certi schemi collaudati e per questo vincenti. Quelli del personale venivano indicati così, con una certa soggezione e un comprensibile timore reverenziale.

Fortunatamente anche il mondo HR si è evoluto e la negoziazione è diventata una delle attività più esercitate per un motivo abbastanza semplice: si è allargato il campo di azione, altri attori sono intervenuti nell’esercitare, ognuno per le proprie prerogative, l’arte di prendersi cura del capitale umano. Questa proliferazione di ruoli ha fornito una chiave di lettura certamente più democratica ma ha aumentato la complessità e quando le cose si complicano, al di là della capacità dei singoli, occorre negoziare in maniera incessante. Non immaginiamoci rivoluzioni ma dialoghi sempre più serrati e una funzione HR che tatticamente si posiziona in mezzo tra un business che ha una velocità di crociera spesso elevata e le persone che quella velocità la vivono non sempre nel modo corretto, da qui la necessità di tentare una mediazione.

Ci si riesce? Mi verrebbe da dire che già provarci potremmo considerarlo un buon risultato ma quando quella mediazione produce valore per tutti gli attori quello è il momento in cui ci scopriamo credibili e la fiducia nei nostri confronti aumenta.

Potrei aggiungere numerosi altri esempi che vanno dalla negoziazione con le parti sindacali alla vendita di un prodotto che faccia contenti chi vende e chi compra, fino ad arrivare alla capacità di negoziare qualcosa per noi stessi con l’obiettivo di migliorare la nostra condizione. Ma aggiungere esempi ci porta in ogni caso a considerare come elemento capace di fare la differenza l’aspetto emozionale di ogni trattativa. Per avere qualche chance di concludere un deal devo necessariamente conoscere (e governare) le mie emozioni e devo anche conoscere (e prevedere) quelle di chi mi sta di fronte. Ragionare unicamente sulla potenza di fuoco che si riesce a mettere in campo non è sufficiente perché il più delle volte porta a irrigidirsi trasformando la trattativa in una deludente impasse.

Consideriamo come vitale l’afflato di umanità che riusciamo a trasmettere quando ci troviamo in una fase negoziale. Figlio, se vogliamo, di una tendenza diffusa che predilige un approccio orientato alla gentilezza a una mera prova di forza muscolare stile braccio di ferro. Se questo risponde a verità, occorre interrogarci su quanto sia strategica anche in fase prospettica la disciplina della negoziazione dove a fare la differenza, lo abbiamo sottolineato, è la componente umana, quell’entrare in sintonia profonda con l’altro senza bluffare ma agendo in trasparenza. Vale per le dinamiche lavorative ma è ancora più significativo in contesti diversi e strategici dove negoziare significa salvare delle vite umane o trattare una resa.

Queste riflessioni ci portano anche a vivere con meno apprensione un futuro che sembra modellato sull’uso intensivo dell’intelligenza artificiale che senza alcun dubbio ci potrà aiutare in attività routinarie anche complesse ma che rimane laterale in quei momenti in cui occorre confrontarsi e negoziare. Più difficile farlo con un algoritmo, ma non è utopico pensare che quell’algoritmo ci possa aiutare nella fase preparatoria di una trattativa o che ci faccia vedere scenari ai quali non avevamo pensato.

Che ci piaccia o no, continueremo a negoziare. Per entrare nel mondo del lavoro o per uscirne ad esempio, per ricoprire una posizione diversa o per rimanere tenacemente aggrappati a quella che abbiamo. E lo faremo lavorando su una competenza che oggi nemmeno consideriamo e che si traduce nella capacità di riuscire a dire di no, argomentando la nostra risposta, trasformando un semplice dialogo in una trattativa dove l’obiettivo non è quello di vincere ma di convincere, che potremmo anche declinare in vincere-con, farlo assieme, allearsi.

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Questo articolo è offerto da:

Giovanni Di Muoio
HR Business Partner presso BNL gruppo BNP PARIBAS
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore

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