Perché e come ci stiamo sbagliando sullo Smart Working
Covid19 e smart working: da argomento di tendenza a facile entusiasmo; le scoperte dei lavoratori, le corse degli HR, ma cosa c’è di concreto?
- 1 Marzo 2020
- 4 Marzo 2020
- 11 Marzo 2020
… sono date che non dimenticheremo facilmente. Sono date che segnano profondamente la nostra generazione, e certamente il mondo del lavoro.
Tra le misure varate dal governo per far fronte ad un’emergenza sanitaria senza precedenti, l’invito prima, la conferma poi e l’obbligo in fine, per tutte le attività e le aziende non coinvolte nella produzione o erogazione di beni e servizi di prima necessità, ad adottare la modalità di lavoro “agile”, ovvero il buon vecchio lavoro da casa, oggi noto alle masse degli aspiranti influencer come smart working.
Cosa sappiamo dello smart working?
Poco, e quel poco che sappiamo è – come ho modo di verificare leggendo articoli e post – sbagliato o fortemente corrotto dall’idea di un telelavoro continuo.
Hai detto telelavoro?
Sì: il lavoro da casa quella volta ogni tanto, che consentiva (già da decenni) ad aziende di tutto il mondo, di lasciar lavorare da casa i propri dipendenti, per periodi brevissimi, singole giornate o porzioni di giornata, per far fronte ad esigenze personali, per sperimentazione o per revisione dei costi di esercizio aziendali, figurandosi come benefit, concessione, sperimentazione, ma sempre in alternativa al modo di lavorare standard, non in completa sostituzione.
Cosa cambia rispetto alla modalità adottata oggi?
In termini di modus operandi, rispetto al telelavoro, poco. In termini di diffusione della pratica, di organizzazione e di tempo di applicazione, tutto.
È sufficiente per parlare di smart working?
Non ancora.
Le prime sperimentazioni di lavoro agile risalgono al primo decennio del 2000 ad opera di aziende molto strutturate (tipicamente multinazionali) su suolo britannico. In seguito (2014) verrà siglata la prima normativa in materia, proprio nel Regno Unito.
In Italia nel 2016 lo smart working comincia, se non a vedere la luce, ad immaginarla, col “Decreto Madia”, che in sintesi prova a:
- fissare l’obiettivo di raggiungere il 10% del personale subordinato entro tre anni;
- sperimentare il lavoro agile al fine di migliorare l’equilibrio vita-lavoro;
- garantire che i dipendenti coinvolti non subiscano penalizzazioni in ottica di carriera o contratto;
- valorizzare le risorse umane e strumentali per aumentare la produttività e l’efficienza;
- responsabilizzare i manager ad applicare diversi strumenti di valutazione e motivazione ai propri subalterni.
A questo punto avremmo prove a sufficienza per determinare che quello che stiamo vivendo non è la promozione di un cambio epocale né un’iniziativa volta al conseguire un miglioramento, sia perché non coincide con i punti chiave del Decreto Madia sia perché lo stiamo facendo per correre ai ripari, e non per definire nuovi standard.
Se volessimo essere ancora più determinati nel comprendere questa dinamica di differenziazione, occorrerebbe citare Il Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD), ente ancora una volta britannico, l’unico ad aver assunto rilevanza mondiale come corpo professionale per esperti in materia di risorse umane: “Smart Working is an approach to organising work that aims to drive greater efficiency and effectiveness in achieving job outcomes through a combination of flexibility, autonomy and collaboration, in parallel with optimising tools and working environments for employees’ (2008).
Lo smart working è un approccio all’organizzazione del lavoro, mirato ad ispirare maggiore efficienza ed efficacia nel conseguimento di risultati, attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, parallelamente all’ottimizzazione per i dipendenti, di strumenti e ambienti di lavoro.
Definizione e promozione all’iniziativa, risalenti al 2008.
Vi rivolgo alcune domande, non necessariamente retoriche perché l’ambito rimane quello del dibattito e dell’arricchimento condiviso:
1. Siamo in presenza di una situazione contingente tale da fornire numeri e dati attendibili di misurazione dell’efficienza nel conseguimento di risultati?
La mia risposta è no: l’emergenza da Corona Virus porta in sé una situazione economica straordinaria, in cui l’economia e i limiti imposti alla circolazione delle persone hanno l’ovvia conseguenza di determinare trend di consumo e fruizione di beni e servizi che non possono costituire una media rappresentativa, di conseguenza, l’erogazione di tali servizi non costituisce media.
2. Quante azienda hanno avuto il tempo di organizzare il lavoro modificando strumenti ed ambienti di modo da ottimizzarli per i dipendenti?
Alcune sicuramente sì, con grande merito, lungimiranza e determinazione delle relative classi manageriali a cui va un plauso. Molte altre non hanno potuto fornire pc, portatili, cuffie o altri strumenti, non hanno ancora determinato piani di intervento da parte di manager o team-leader per corretti interventi di monitoraggio e motivazione ai componenti delle proprie squadre ed in moltissime circostanze (statistiche ancora poco attendibili ma molto alte) non sono state in grado neppure di strutturare una connessione VPN. Ci si affida quindi al pc, telefono e connessione domestica dei singoli dipendenti, nonché alla loro capacità di tenere un ritmo di lavoro, un approccio professionale e una soddisfazione adeguati.
3. Se lo smart working porta in sé anche l’idea di migliorare l’equilibrio vita-lavoro, come si può anche lontanamente pensare di tracciarne un bilancio in un periodo così surreale?
Anche qui la mia risposta è prudente.
Prima che possa essere accusato di contrarietà al movimento del lavoro agile è doveroso specificare che svolgo quasi unicamente smart working da circa 4 anni, che sono stato il primo dipendente di una delle sopra citate aziende con sede Regno Unito, a sperimentarne l’utilizzo nel 2008 da volontario, e che l’ho promosso e regolamentato aziendalmente tra i colleghi dell’ufficio che ho coordinato tra il 2010 e il 2014 al mio rientro in Italia, proprio per facilitare i dipendenti e migliorarne la soddisfazione lavorativa, molto prima che venisse teorizzato e regolamentato a livello nazionale.
Questo non significa che si possa fare di tutta l’erba un fascio.
Attenzione, il telelavoro ed il lavoro agile hanno in comune un elemento fondamentale: essere una forma alternativa alla normale produttività, che consenta a chi ne è in bisogno o in grado, di migliorare il rapporto con il proprio incarico, fornendo all’azienda opzioni diverse nella gestione degli spazi e dei costi, oltre che l’ovvio beneficio derivante da un dipendente contento.
Chi ne ha bisogno, e chi ne è in grado è la chiave però. La socialità resta fondamentale sul luogo di lavoro: la possibilità di interazione, confronto e talvolta distrazione. Inoltre l’individualità della possibilità di applicazione non è da sottovalutare: c’è chi tra noi è perfettamente a suo agio a prendere da solo l’iniziativa di alzarsi e camminare e c’è chi ha bisogno di maggiore guida, motivazione esogena e, talvolta, controllo.
In fine, c’è un aspetto gerarchico che riguarda la preparazione dei nostri manager d’azienda, che ancora in tantissimi casi non conseguono la promozione ad incarico per capacità umane, leadership e soft skills ma per aver raggiunto traguardi nell’incarico inferiore o precedente, e che sono spesso incapaci di trasferire il senso di appartenenza ed incentivare la performance dal vivo, figuriamoci da remoto.
Esistono aziende che per tipologia, settore o applicazione, possono e devono affidarsi allo smart working in maniera totale o quasi.
Lo smart working è il futuro, non ho dubbi, ma prima del futuro ci vuole un presente che consenta di non fraintendere la definizione e pertanto l’applicazione della modalità innovativa e che ci ponga nella condizione di studiare, preparare e condurre il gioco, anziché esserne travolti in un Jumanji che ci rivelerà senza dubbio eccellenti risorse di adattamento e volontà, ma non acquisite in un contesto reale e pertanto non ancora attendibili.
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