Battiti
“Abbiamo tutti il diritto, a una certa ora, di sentirci bene, un’altra persona”. Dargen D’Amico – Modigliani |
Ne hai sentito parlare, distrattamente. Come certe parole che qualcuno a corto di idee pronuncia per riempire la conversazione. Sostenibilità è una di quelle e succede sempre una cosa strana se ti fermi a riflettere. Accade che la prima cosa a cui pensi è qualcosa da puntellare, che sta per sbriciolarsi come un grissino e bisogna sbrigarsi prima che succeda l’irreparabile. Oppure la mente ti riporta a un gesto generoso in cui sei lì, al centro della carreggiata, mentre aiuti un anziano dal passo incerto, lo sostieni consapevole di aver fatto una buona azione.
Il lessico aziendale è molto più algido e schematizza in modo preciso il termine sostenibilità legandolo a fattori come quello ambientale, quello produttivo e quello più nobile che si prefigge di combattere ogni tipo di diseguaglianza. Ce ne sarebbero anche molti altri ma l’idea che possa esistere una personalizzazione del concetto di sostenibilità declinata in modo diverso da persona a persona mi rende più fiducioso nel genere umano e mi fa sembrare il tutto meno etereo.
Poi ci si incontra nei lunghi corridoi e c’è una cosa che più di ogni altra facciamo fatica a sostenere. Sto parlando degli sguardi. È una roba complicata, nessun manuale o monografia riesce a spiegarlo e succede che abbassiamo gli occhi quasi per riflesso condizionato. Mi sono sempre chiesto il perché e ho provato a darmi delle risposte il più delle volte legate al filo sottilissimo dell’immaginazione. La conclusione alla quale sono giunto è che sostenere lo sguardo è un qualcosa di intimamente connesso al tema del conflitto.
Ora proviamo per un attimo ad astrarci dalle consuete dinamiche relazionali in cui finiamo per recitare una parte snaturando quello che realmente siamo barattandolo con quello che vogliamo far apparire. Facciamo un gran parlare di semplificazione, ceselliamo i nostri modelli organizzativi cercando di far emergere il vantaggio competitivo di essere snelli che è figlio se vogliamo di una semplice correlazione tra quello che troviamo scritto da qualche parte e quello che accade nella realtà. E allora per quale motivo l’esercizio della semplificazione resta spesso tale e non si accompagna a un reale cambio di passo, qualcosa che riesce a generare quel valore sintetizzabile con il termine cambiamento?
La risposta è tutta nella distanza che separa le buone intenzioni dalle buone azioni. In un mondo ideale questi due termini si annullano diventando una sola parola in una perfetta e geometrica sovrapposizione che apre le porte alla comprensione. La realtà ci racconta un copione diverso dove l’incomprensione riesce a permeare molto più velocemente i muri delle nostre organizzazioni. Facciamo una fatica immane ad assimilarne i razionali perché il più delle volte ci appaiono concetti fumosi con un’aderenza alla realtà prossima allo zero. Ce li hanno spiegati male o siamo noi che non capiamo o che non vogliamo capire? Domanda da un milione di dollari alla quale non so rispondere perché c’è un fondo di verità in entrambe le dimensioni o sarebbe meglio definirlo un concorso di colpe.
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Ne sono consapevole, ho utilizzato un termine tossico perché parlare di colpe si finisce sempre per evocare la caccia alle streghe puntando il dito ora su questo ora su quello. Le guerre iniziano così, hanno meccanismi semplici in cui il coraggio lascia il posto alla paura, risposte sbagliate a domande mal poste, la preoccupazione costante di essere in numero superiore ai salvagenti sulla barca come direbbe Dargen D’Amico. Per tutti questi motivi dovremmo poter convenire che ne ha uccisi più una cattiva comunicazione o una comunicazione assente della febbre gialla se il risultato è un conflitto che si alimenta in maniera progressiva e il cui carburante è una quantità smisurata di non ho capito.
La reazione a questo stato di cose potremmo sintetizzarla con il termine diffidenza e sbagliamo approccio se ghettizziamo questo aspetto ad una dimensione squisitamente organizzativa perché il conflitto alla fine dei conti ha sempre una deriva di tipo individuale. Colpo su colpo, corpo a corpo, mi difendo e sparo e la guerra, lo capisce anche un bambino, è il contrario dell’amore, non si regge su un gioco di sguardi anzi lo sguardo lo si abbassa per nascondersi o per colpire quando meno te lo aspetti.
In sostanza l’azione strategica di traghettare una qualsivoglia organizzazione verso un futuro sostenibile può arrivare a generare più dubbi che certezze se non ci si preoccupa di spiegarlo bene con un meccanismo di concertazione che spesso fatica ad emergere. Il dubbio produce resistenza, la resistenza si esprime con la paura e la paura sfocia in conflitto. Semplificazione significa agire sulla causa radice che è appunto una declinazione condivisa del concetto di sostenibilità. La metabolizzazione di tutto questo non è immediata e non potrà mai esserlo. Il dubbio ha un tempo d’incubazione piuttosto lungo ed è proprio in questo frangente che dovremmo preoccuparci di quello che il World of Work Trends Report 2023 del Top Employers Institute® evidenzia come la necessità di ascoltare il battito dell’organizzazione.
Impegnativo ma non impossibile. La domanda che sorge spontanea è capire se le organizzazioni hanno un cuore che batte o è la sommatoria di tutti i battiti delle persone che la vivono, ognuno a modo proprio. Mi piace il concetto di coralità, mi fa pensare all’idea di gruppo e a certa musica che scandisce certi momenti che sono e rimangono solamente nostri e ci fanno capire quanta bellezza c’è nelle pieghe di una solitudine creativa. Un po’ come il colesterolo. C’è quello buono e quello cattivo. Accade lo stesso per la solitudine.
David Foster Wallace, che è stato uno dei più geniali autori di narrativa degli ultimi anni, diceva che se presti attenzione puoi arrivare a sentire il rumore che fa il fumo del caffè quando esce dalla tazzina. Questo per dire che l’ascolto è una roba seria e non ci si improvvisa e nobilita un sacco chi lo esercita e chi ne è destinatario.
E forse la soluzione in fin dei conti è molto più semplice e consiste nell’upgradare il concetto di ascolto elevandolo a una forma più intima concentrandosi non sulle parole ma sul battito che quella persona produce vivendo la sua esperienza di employee o anche di leader. Dovremmo attrezzarci per fare questo con lo spirito di chi restituisce qualcosa all’altro, intercettare certi pensieri, seguirne le traiettorie, ricordare che i battiti non sono soltanto un indicatore di vitalità ma sono anche un modo per reagire al torpore.
Quindi, “battiti” diventa un invito alla consapevolezza, a non lasciarsi sopraffare e provare a scendere in campo, confrontarsi. Potremmo accorgerci, con stupore, che l’azione di sostenere uno sguardo è meno complicata di quello che ci appare.
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Giovanni, il tuo linguaggio poetico e riflessivo, che ci accompagna nel viaggio attraverso le relazioni umane e organizzative, mette in luce le sfide che emergono quando ci scontriamo con il tema della sostenibilità nei contesti lavorativi e relazionali.
L’analisi delle dinamiche comunicative e aziendali evidenziano la necessità di una comprensione più profonda e condivisa del concetto di sostenibilità, che vada oltre le mere parole e si traduca in azioni concrete.
Le difficoltà riguardanti la comunicazione e la gestione dei conflitti nelle organizzazioni necessitano empatia ed un importante ascolto attivo per favorire un clima di fiducia e collaborazione.
Ecco perchè il nostro impegno quotidiano dovrebbe essere orientato alla promozione di una cultura aziendale incentrata sull’ascolto empatico e sulla consapevolezza reciproca, che permetta alle persone di esprimersi liberamente e di condividere le proprie esperienze e preoccupazioni.
Questa tuo scritto mi ha aiutato a riflettere sulla complessità e sulla bellezza delle relazioni umane e organizzative, e solo attraverso un autentico e profondo scambio di “battiti” possiamo sperare di costruire un futuro più sostenibile e inclusivo.
Grazie
Grazie mille Enrica per questa tua lucida e attenta lettura. Hai colto perfettamente il senso dell’articolo dove l’ascolto viene in qualche modo upgradato e si focalizza in un qualcosa di più profondo che aiuta le persone ad evolversi insieme a tutta l’organizzazione. Non è una roba semplice presi come siamo da mille incombenze però non farlo ha il sapore di un’occasione mancata. Chi si occupa di HR dovrebbe cambiare un po’ il suo paradigma e piuttosto che adoperarsi per dare risposte ai numerosi quesiti che gli vengono sottoposti, dovrebbe iniziare a porsi delle domande e stimolare la riflessione anche verso le persone con le quali si relaziona. Grazie ancora.