Benessere al lavoro: i vantaggi indiscussi di avere dipendenti felici
Si chiama Chief Happiness Officer, ovvero il Manager della felicità, la figura che si sta facendo strada all’interno delle organizzazioni cosiddette “positive”.
Questa figura nasce negli Stati Uniti e sembra che la ragione della sua esistenza affondi le proprie radici nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America redatta da Jefferson e approvata dal Congresso di Filadelfia nel 1776, dove la felicità sarebbe un diritto inalienabile dell’individuo. Dunque, se la felicità è un diritto inalienabile, allora anche al lavoro è necessario che le persone siano felici.
Ma non si tratta solo di un dato concettuale. Al di là dei concetti, infatti, è innegabile che il benessere lavorativo abbia delle ripercussioni importanti almeno su tre aspetti: produttività e innovazione, retention e cultura aziendale.
Si tratta di elementi strettamente correlati tra di loro. Se un lavoratore è felice sarà naturalmente portato ad essere più produttivo. In pratica, però, assistiamo ad uno scenario in cui, secondo la società di analisi del mercato del lavoro Gallup, l’87% dei dipendenti è demotivato e ciò si traduce in perdite di produttività pari a 500 miliardi, complice anche il tasso di assenteismo causato dall’insoddisfazione lavorativa.
Quando siamo felici, del resto, si attivano delle precise leggi fisiologiche che coinvolgono l’ormone della felicità, la cui azione rende più recettivi e predisposti al raggiungimento degli obiettivi e più collaborativi con il gruppo di lavoro. La felicità permette altresì di interpretare le situazioni e gli eventi sotto una luce più positiva e ciò influenza anche l’abilità di problem solving. Il guadagno che ne deriva è anche in termini di innovazione, che sarebbe pari ad +300%.
Inoltre, un ulteriore problema che le organizzazioni si trovano a dover gestire è quello della retention. Si tratta di un tema “caldo” per le aziende, sempre più impegnate a trasmettere efficacemente verso l’esterno una cultura aziendale positiva che risulti attrattiva per il mercato. Il cambio generazionale, del resto, ha determinato un irreversibile cambiamento nell’approccio al lavoro da parte di Millennials e GenZ.
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Mentre la “vecchia guardia” aveva trovato nel lavoro lo scopo della propria vita, la nuova generazione vede nel lavoro un mezzo e non lo scopo della propria vita. Oggi, però, questo cambio di percezione del lavoro ha investito anche i lavoratori over 50, dove il 69% della forza lavoro si sente non valorizzata e smarrita.
Nonostante nella cultura del lavoro italiana (ma mi sento di estendere la considerazione a tutti i Paesi di matrice latina) sia ancora molto radicata una concezione taylorista e fordista, occorre lavorare per trasmettere al management aziendale, che si trova ad attraversare questa transizione, l’importanza di aprire un dialogo che coinvolga processi organizzativi, comportamenti e cultura. L’organizzazione positiva, insomma, si è affermata ormai come vero e proprio modello culturale che reclama a pieno titolo il suo posto.
Il nostro Paese si colloca attualmente al 47esimo posto per ciò che riguarda il livello di fiducia verso i luoghi di lavoro. Un dato non incoraggiante, ma considerando il graduale svecchiamento dell’attuale classe imprenditoriale mi sento di concludere che presto assisteremo ad un’inversione di tendenza e ad un miglioramento della posizione in classifica.
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