Le fascinazioni della prospettiva
Visioni, prescrizioni, proscrizioni e distorsioni della realtà organizzativa e della consulenza manageriale
Tempo fa pubblicai un mio breve scritto su Linkedin dal titolo “Il mio personalissimo decalogo del consulente”. Se andaste a scartabellare il mio profilo lo trovereste in qualche remoto cantuccio della bacheca, immobile, negletto per lo più. Era uno di quei post “comodi”, dal testo macilento, senza pretese, senza pruriti velleitari. Pensato e scritto, insomma.
Era “comodo”, tra l’altro, perché mi permise di utilizzare il “punto elenco”, in uno di quegli slanci dettati dalle scalmane della sintesi, ma più ancora, e peggio ancora, dalle inerzie della mia pigrizia atavica.
Dunque, un pensiero che mi usò la cortesia di non menarmi in quelle maldestre dissertazioni da venerabile dell’horror vacui o da Guru della Comunicazione. Quello con la G maiuscola, mi raccomando.
Ne uscì fuori una sorta di dépliant – che di seguito vi ripropongo – che identificava, e che ancor oggi identifica, la mia linea guida non tanto per l’operatività del mestiere, quanto per l’approccio e la “giusta prospettiva” da cui guardare me stesso e i fenomeni organizzativi.
Sia ben chiaro: non esiste in natura né nella storia del pensiero universale una prospettiva che sia o che possa essere indiscutibilmente “giusta” o “vera”. La “giustezza” lasciamola pure alla dommatica.
Ogni prospettiva, dicevo, porta con sé e in sé le interpretazioni, i principî, i convincimenti più o meno radicati e i significati che ognuno di noi attribuisce alla realtà. Ogni prospettiva da cui guardiamo i fenomeni porta con sé una decisione e una storia.
Si può dire allora che la “prospettiva” sia un giudizio di valore che si esplicita nella condizione prospettica di ogni vissuto.
Nietzsche disse che il giudicare è la nostra più antica credenza. Non aveva torto, ma evito in questa sede di addentrarmi nell’ermeneutica di questa affermazione che si spinge nelle profondità della speculazione filosofica.
Il “giudicare” può anche essere una credenza, certo, ma sicuramente è per me una “correttezza prospettica”. Questa mia “correttezza” non vuole e non deve essere la “correttezza” di tutti.
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La prospettiva da cui io guardo il mondo, e segnatamente il mondo delle organizzazioni, è la prospettiva ampia di una veduta, di un panorama, ma al contempo è anche quella di uno scorcio, di un dettaglio, di un fugace colpo d’occhio su ciò che a qualcun altro potrebbe sembrare banalmente trascurabile.
Insomma, ciò su cui si posa il mio sguardo, e quindi la mia mente, è ciò che mi ammalia o mi infastidisce, ma che sempre e in qualche modo mi cattura. Tutto questo sono le mie fascinazioni. Le fascinazioni della prospettiva.
Ora, a quei dieci precetti è arrivato forse il tempo di aggiungere l’undicesimo. Ma prima ve lo ripropongo integralmente come in origine.
IL DECALOGO DEL CONSULENTE (SECONDO ME)
1. Il tuo è un mestiere, ma trattalo come una vocazione, perché è ciò che ti dà significato. È il tuo beruf.
2. Questa vocazione, ricorda, è sempre dinamica e propulsiva. Guardati dalle fissazioni metodologiche e dagli assolutismi delle teorie.
3. La tua vicenda professionale, e soprattutto personale, si costruisce grazie allo studio e al “dubbio” sistematici.
4. Sviluppa le tue competenze, i tuoi saperi, ma abbi sempre una visione sistemica. Gli “orti” sono sempre giardini chiusi.
5. Non mercanteggiare. La professione non si sciorina sui banchetti.
6. Quando “vendi” non essere irresoluto, ma non confondere mai la determinazione con l’insistenza. Lo stile è sempre fondamentale.
7. Ogni azienda è il teatro perfetto tanto per una tragedia di Eschilo quanto per la Commedia dell’Arte. Tu puoi solo contribuire a darle più equilibrio, ma non puoi cambiarle il senso.
8. I clienti non sono né “miei”, né “tuoi”, né “suoi”, ma appartengono soltanto a loro stessi.
9. Cura la tua comunicazione, altrimenti è il solito farfugliare.
10. Il “successo” e il “fallimento”, in fondo, non sono che due impostori. Va dritto per la tua strada, ma impara dagli errori e non insuperbirti per i risultati.
Che siate d’accordo o meno, che vi piaccia o no, ho la presunzione di credere che queste parole suscitino quantomeno una riflessione. Qualsiasi riflessione, non importa. Ma sto tergiversando, me ne rendo conto.
Voi state aspettando l’undicesimo comandamento e io divago, prendo tempo, perdo tempo. Perdonatemi: ma perché tutta questa fretta?
Prima ponderatelo bene questo mio decalogo. Meditatelo, fatelo “vostro”, masticatelo. Rigiratelo, capovolgetelo, modificatelo, travisatelo, contestatelo, emendatelo, cestinatelo. Insomma, fatene quel che volete.
A ben pensarci, quelle mie dieci prescrizioni erano e sono puramente marginali e preparatorie all’undicesima. Quale dovrà essere allora quest’undicesimo “comandamento”? Il seguente:
11. non arrogarti mai il “diritto”, o peggio la pretesa, di correggere qualcuno. Puoi correggere solo te stesso (se ci riesci).
Siete delusi? Vi aspettavate un pensiero o un aforisma indimenticabili?
Fatto sta che questo è il mio undicesimo comandamento con il quale paradossalmente e convintamente sottolineo proprio la necessità di sottrarsi ad ogni impulso precettistico, soprattutto nella formazione e nella consulenza manageriale.
La verità è che la consulenza e la formazione non hanno il potere di cambiare chicchessia, ma solo quello di far sì che siano le persone le uniche e indiscusse protagoniste del loro cambiamento.
Questa si chiama consulenza di processo, come la chiamò Edgar H. Schein: io non indosso il camice del medico, non prescrivo farmaci, non impongo terapie. Non sono io a poter (e voler) risolvere il vostro problema o i vostri problemi, ma potrò essere io, questo sì, a fornirvi il grimaldello affinché possiate risolverlo o risolverli. Sarete solo voi ad uscirne vittoriosi. Non è facile, credetemi. E non è poco.
Da sempre – quasi per istinto di ribellismo o di conservazione o per ingiustificato narcisismo – mi guardo da chi vuole insegnarmi a vivere, da chi mi dice cosa o come dovrei fare, da chi mi prende sottobraccio e a bassa voce, all’orecchio, mi suggerisce le “regole”. Quali regole?
Le regole, come dicevo, che cosa sono se non il prodotto di una prospettiva, di un giudizio di valore del tutto soggettivi?
Ecco, avete visto!?, senza che me ne accorgessi, sono già arrivato a dodici…
Mi fermo qui. La mia pigrizia incombe. Andate a scartabellare il mio profilo. Cercate quel post. Trovate il mio decalogo e aggiungeteci questi altri due comandamenti. E così sia.
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Le “prospettive” delineate suscitano riflessioni, sì. Hanno, a mio parere, il dono della onestà intellettuale, e di essere vive, richiedendo esplicitamente un ruolo attivo da parte degli interlocutori.
Venendo alle organizzazioni, sulla base delle mie piccole esperienze e, naturalmente, della mia soggettività prospettica, penso che la maturità, non soltanto professionale, che tale approccio richiede da parte di chi usufruisce di un servizio di consulenza non sempre sia presente, ciò da cui possono derivare distorsioni percettive e applicative, quand’anche si tratti di decisioni elaborate in buona fede.
Mi chiedo se anche il dott. De Petra talvolta abbia riconosciuto tale precaria consapevolezza in alcuni “decisori”, e come, in caso affermativo, il consulente/formatore adegui il suo operato.
Grazie
Buon giorno Roberto,
e grazie per questa sua interessante osservazione che sottoscrivo pienamente e che integra, per così dire, il mio pensiero.
Quella “precaria consapevolezza dei decisori” a cui lei fa riferimento è un fenomeno complesso e non infrequente nella consulenza e nella formazione manageriale, ascrivibile, oltretutto, ad una molteplicità di ragioni e di “prospettive”, appunto. Ora, non mi dilungo per non tediarla, ma soprattutto perché la questione richiederebbe non poche riflessioni.
A tal proposito, la rimando invece, se preferisce, ai quattro seminari che ho tenuto proprio su questo blog qualche settimana fa e nei quali, tra i tanti temi trattati, ho affrontato anche questo.
Un cordiale saluto
Giuseppe De Petra