Promozione e utilizzo di attività salutari sul posto di lavoro

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Promozione e utilizzo di attività salutari sul posto di lavoro

di Matteo P. Bonistalli

Dopo le attuali riforme pensionistiche, ho cominciato a interrogarmi sul benessere e la salute dei dipendenti sul posto di lavoro in base alla seguente considerazione: alzando l’età pensionabile fino e oltre i 70 anni, quali conseguenze si prospettano dal punto di vista della condizione fisica, mentale ed economica di un lavoratore e della società in cui è inserito? Ho dunque iniziato la mia ricerca da quello che ritenevo l’approccio più appropriato, e cioè le statistiche. Come punto di partenza ho tentato di interpretare l’andamento, in termini di salute e malattia, della popolazione odierna per provare a capire in che modo la sfera lavorativa ne veniva influenzata.

Per riassumere velocemente alcuni dati riportati dall’ISTAT precedenti al periodo pandemico (aggiornati al 2019), nelle fasce di età comprese tra i 45 ed i 65 anni, si intensificano i casi di obesità, di malattie croniche non trasmissibili come quelle di tipo muscoloscheletrico, cardiovascolari, diabete, patologie respiratorie croniche, tumori e che hanno un tasso di mortalità più elevato rispetto ad altre tipologie di malattie, nonché assorbono più dell’80% della spesa sanitaria pubblica. Senza contare le conseguenze riguardanti gli abusi di alcol, fumo e droghe, spesso legate a forme di disagio esperito dalla persona, anche in ambiente lavorativo.

Al contrario, tutto ciò che invece riguarda le abitudini salutari come, per esempio, svolgimento di attività fisica, diete equilibrate, uso della bicicletta, etc, segue un andamento diametralmente opposto, correlato al livello d’istruzione posseduto dagli individui: pratica sport e segue una dieta salutare il 51,4% dei laureati, il 36,8% dei diplomati, il 21,2% di chi ha un diploma di scuola media inferiore e solo il 7,3% di chi ha conseguito la licenza elementare o non ha titoli di studio. I sedentari invece, ossia coloro che dichiarano di non praticare alcuno sport o attività fisica nel tempo libero, sono oltre 23 milioni (39,1% della popolazione) e aumentano con l’età fino ad arrivare a quasi la metà della popolazione di 65 anni.

Se questi due aspetti, da un mio punto di vista, sono allarmanti, non sembrano però preoccupare gli operatori sanitari: ogni dieci pazienti, solo tre dichiarano di aver ricevuto come consiglio dal proprio medico curante di fare attività fisica regolare o di affidarsi a una dieta equilibrata, dimostrando di preferire la somministrazione di medicinali per risolvere un problema, piuttosto che strategie adeguate a prevenirlo.

Allo stesso modo, le Istituzioni sembrano affrontare i problemi che attanagliano l’economia del lavoro da un’unica prospettiva, e cioè quella delle leggi economiche attuali (vedi per esempio l’entrata in ritardo nel mondo del lavoro dei giovani rispetto al passato, oppure la mobilità degli impieghi o il lavoro in nero, etc), dimenticando forse, di considerare anche l’altra parte, e cioè quella della salute e della spesa pubblica sanitaria: i casi di malattia sopra menzionati sono in aumento e, nonostante qualcuno affermi che “viviamo più a lungo”, non significa che viviamo anche “in salute”. A mio avviso, ritrovarsi con una popolazione di ultrasessantenni, disoccupati e con problemi fisici importanti non è del tutto da escludere. Come il probabile aumento del numero di famiglie che si ritroverebbe a vivere al di sotto della soglia di povertà.

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Infatti, sempre secondo le statistiche ISTAT sui pensionati in Italia, per 7,5 milioni di famiglie i trasferimenti pensionistici rappresentano più dei tre quarti del reddito familiare disponibile. Quindi, rimuovendo dalla fotografia attuale la figura del “pensionato”, contemporaneamente andremmo a eliminare anche quei supporti economici su cui molti nuclei famigliari odierni fanno affidamento durante i periodi di crisi per non finire a vivere ai bordi di una strada, come appunto sta già accadendo a coloro che non possono contare su questo tipo di aiuto.

Quindi, attraverso un’analisi del tutto personale, ergo, opinabilissima, anche le leggi economiche sopra citate sembrano mancare di una prospettiva più ampia dove, se da una parte il risparmio sui fondi pensionistici sembra auspicabile, dall’altra potrebbero comparire perdite ingenti sul piano dell’assistenza sanitaria e, nella più catastrofica delle ipotesi, anche dei servizi sociali. Come possiamo quindi intervenire per invertire questa tendenza, ammortizzando le perdite dei fondi statali, con un’azione volta contemporaneamente a migliorare le preoccupanti condizioni di salute dei singoli individui, al fine di affrontare con più serenità questo periodo di transizione?

Ovviamente, una risposta che a mio parere sembrava trovare un accordo in questa controversa situazione, era di suggerire il perseguimento di uno stile di vita sano ed equilibrato, dove il posto di lavoro rappresentava un ruolo di primo piano su cui poter agire: è lì infatti che passiamo molto del nostro tempo, fattore fondamentale in correlazione con la vita frenetica a cui siamo sottoposti, ma anche dove conseguenze e benefici derivanti dalle condotte dei suoi dipendenti, si riflettono sul clima organizzativo e sulla stessa produzione.

Eppure, cercando nel web, non avrei mai immaginato di trovare una letteratura internazionale così ampia in materia di “benessere e salute sul posto di lavoro”. Partendo dal discorso prettamente statistico, vengono organizzati convegni in ogni parte del mondo fin dagli anni ’70 e forse anche prima, sulle problematiche connesse alla salute e su come intervenire per migliorare tali condizioni. Su questa base, contemporaneamente, e soprattutto negli Stati Uniti ed Europa del Nord, sono stati condotti esperimenti inerenti all’introduzione di strategie riguardanti la promozione di abitudini salutari da introdurre direttamente nell’ambiente lavorativo.

Per tentare di sintetizzare il più possibile questi tipi di intervento riportati all’interno di un’enorme mole di studi, potrei dividerli in due macro-gruppi:

  • Intervento di implementazione: programmazione ed esecuzione di un certo tipo di attività fisica (anche se non è sempre specificato se all’interno dell’orario di lavoro oppure al di fuori di esso), creazione di aree ricreative, offerta di un menù salutare alla mensa aziendale, etc.;
  • Intervento informativo/formativo: corsi su alimentazione sana, promozione delle attività fisiche (anche sottoforma di offerta di abbonamenti a centri fitness da parte dell’azienda stessa), cartelli posizionati nelle aree lavorative al fine di promuovere abitudini salutari dentro all’organizzazione, come l’utilizzo delle scale o della bicicletta per raggiungere il posto di lavoro, etc.

Durante le ricerche, sono stati anche proposti questionari self-report, test sulle condizioni fisiche dei partecipanti, il tutto prima, durante e dopo lo svolgimento dell’esperimento; in alcuni studi hanno tentato di scoprire possibili correlazioni tra questo tipo di iniziative e alcune caratteristiche lavorative o condizioni di salute più specifiche, come per esempio:

  • Obesità;
  • Abuso di fumo o alcol;
  • Malattie di tipo cronico non trasmissibili;
  • Burnout, assenteismo, presentismo, motivazione, produttività, etc.

In molti casi poi, gli studiosi sono tornati successivamente dalla fine dei test, a ricontrollare lo stato del gruppo esaminato.

Le conclusioni raggiunte da suddette ricerche non hanno però registrato dei risultati o “totalmentepositivi o negativi, come parimenti, è avvenuto riguardo a quelle correlazioni più specifiche sopra riportate. Durante alcuni di questi studi, quando la popolazione aziendale presa in considerazione rappresentava un numero elevato di individui, chi decideva di partecipare spontaneamente ai test proposti, rappresentava spesso una percentuale molto bassa rispetto al totale; come, ritornando a distanza di sei mesi o un anno dalla fine dell’esperimento, frequentemente veniva scoperto che i soggetti presi in esame erano tornati ad assumere le abitudini precedenti all’intervento.

E quindi, mi sono sorti alcuni interrogativi e dubbi a riguardo di queste strategie: in primis, per quale motivo non si è mai riusciti a portare tanta conoscenza su un aspetto della vita lavorativa e individuale così importante, da un piano sperimentale a uno reale e su larga scala? Perché, trattandosi nello specifico della salute dei partecipanti agli studi, i ricercatori hanno trovato delle difficoltà nell’ottenere una certa collaborazione, nonché dei risultati positivi più marcati e duraturi nel tempo?

A mio avviso, sembra che siano venute a mancare due componenti fondamentali agli stakeholders coinvolti, e cioè la percezione sulle problematiche studiate nonché la motivazione nell’affrontare le “sfide” proposte. Nonostante i risultati non siano stati sempre omogenei, hanno comunque registrato dei cambiamenti positivi, anche se riferiti in molti casi a quel breve periodo di tempo relativo alla sperimentazione. Quindi, a tal proposito, mi chiedo se, diversamente, prolungando il fattore tempo dell’intervento e agendo sulle strategie utilizzate con un processo di tailoring più accurato per l’ambiente lavorativo in cui inserirle, il risultato finale non si modifichi, protraendosi nel tempo e radicandosi con più efficacia all’interno delle organizzazioni.

Una domanda che non cerca di svelare niente di nuovo, in quanto la risposta è già davanti ai nostri occhi, e cioè in quelle realtà aziendali, molte in verità, che negli Stati Uniti hanno adottato questo tipo di approccio: lo “Psychologically Healthy Workplace Awardsè per esempio un premio che viene assegnato a coloro che attuano programmi e politiche che promuovono la salute e il benessere dei dipendenti, migliorando le prestazioni organizzative. Anche l’intensificazione di quelle iniziative volte a promuovere l’introduzione di questo tipo di attività, in tutta Europa e anche in Italia, è un segnale più che positivo: i tempi sono effettivamente cambiati, con nuove dinamiche scolastiche e lavorative che, ogni giorno, influenzano e modificano le prospettive e le abitudini degli individui, conseguentemente agli importanti cambiamenti di tutto il sistema economico e lavorativo.

Nonostante questi studi vadano avanti da più di cinquant’anni, è adesso che, a mio avviso, dovremmo iniziare a considerare più seriamente di applicarli su larga scala. A questo proposito, la mia opinione è che, sensibilizzando e preparando con corsi specifici a livello nazionale i leaders ed i dipendenti che si occupano di Risorse Umane, affinché siano in grado di valutare e quindi adeguare alle loro realtà aziendali le strategie di benessere e salute sopra citate, sia una soluzione che porterà dei risultati tangibili nel medio-lungo termine: come un mio illustre Professore di Psicologia Sociale mi ha fatto giustamente notare, è partendo dall’assunto che più il campo di azione è allargato (es. comunità o organizzazioni) e più l’intervento è efficace perché ricade a cascata sui sistemi gerarchicamente “inferiori”, nonostante necessiti di grandi quantità di risorse (economiche, umane, “politiche”). Al contrario, più l’intervento è focalizzato sui sistemi micro (individui) e più tenderà a risultare meno efficace perché con più difficoltà riuscirà a diffondersi nei sistemi gerarchicamente “superiori”.

Questi tipi di “intervento”, in una chiave di lettura personale degli studi fin qui da me consultati, dovrebbero passare da una fase iniziale di tipo “informativo/formativo” all’interno delle aziende stesse e magari in collaborazione con gli enti sanitari locali: tale azione avrebbe lo scopo di agire sulle percezioni e sulle motivazioni degli individui e delle aziende riguardo a questo argomento. Dopodiché, valutando il grado di “assorbimento” e di “collaborazione” dei dipendenti, intervenire in modo più “implementativo”, inserendo all’interno delle organizzazioni le attività più adeguate.

Un percorso che, attraverso i risultati raggiunti, dovrebbe terminare con il coinvolgimento del terzo e ultimo stakeholder, e cioè le Istituzioni, con quegli interventi di tipo formale e ovviamente di supporto economico che andrebbero a rafforzare l’uso di queste condotte.

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Riferimenti:

Altre librerie consultate: Cochrane Library, BMC Public Health

Questo articolo è offerto da:

Matteo Pfeiffer Bonistalli
Vivo in Danimarca e da più di 15 anni mi occupo di servizi e ospitalità. Ho iniziato ad interessarmi alle Risorse Umane con dei corsi sulla leadership, ovviamente in relazione al mio lavoro. Da un anno frequento un corso universitario con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Imprese.

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