A lezione di Risorse Umane con Friedrich Nietzsche
Come il filosofo tedesco può spingere i recruiter a riflettere sul proprio ruolo
di Sara Brasca
Lo spunto di riflessione per questo articolo mi è arrivato dalla preparazione di uno dei miei ultimi esami universitari: Antropologia Filosofica. Inaspettatamente, dalla lettura di uno dei testi in bibliografia [1] ho trovato possibili risposte ad alcune domande che tanti recruiter si pongono: come valutare le mansioni più generiche? Devo svantaggiare un candidato che si è diplomato o laureato fuoricorso? Chi fa più straordinari è necessariamente da lodare? È una cosa negativa se un candidato si è preso alcuni mesi o anni lontano dal mondo del lavoro?
Sarà Friedrich Nietzsche, a distanza di più di un secolo, a risponderci (i passi virgolettati sono sue citazioni tratte dal libro sopracitato).
Secondo il filosofo tedesco l’uomo moderno è affetto da due morbi, apparentemente diversi ma che sono in realtà due facce della stessa medaglia: da un lato una iperspecializzazione che settorializza sempre più il sapere e il lavoro, dall’altro lato una generalizzazione che scade nell’anonimato della massa. La condizione in cui si viene a trovare l’uomo è quindi quella di una frammentazione, che coinvolge la cultura, il lavoro, il tempo libero, fino all’intera esistenza dell’individuo.
A fare da filo conduttore tra l’ambito culturale e quello lavorativo è la figura dello scienziato moderno: colui che, dotato di una spiccata «acutezza di sguardo da vicino», soffre però di «una grande miopia per la lontananza». Insomma, l’erudito si sa esprimere a proposito del «cervello della sanguisuga», ma «quando il discorso specialistico tace, sulle questioni della vita e degli uomini trapela la mancanza di ogni vera esperienza e di ogni originale approfondimento».
Queste pagine mi hanno fatto pensare a quei colloqui in cui allo sfoggio di titoli e alte votazioni non si accompagnavano però elasticità mentale, empatia, problem solving. Insomma, è sicuramente importante valutare e apprezzare un eccellente percorso di studi in un candidato, ma non vanno dimenticate le cosiddette soft skills, che lo rendono una mente originale e aperta.
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Sebbene Nietzsche fosse ancora ben distante dai livelli raggiunti oggi dall’automazione, già si poneva il problema che tanti esperti oggi mettono in evidenza riguardo allo sviluppo tecnologico: esistono dei confini etici? Le macchine prenderanno il posto dell’uomo? Il filosofo, anche in questo caso, ci mette in guardia non tanto dalla tecnica in sé, di cui riconosce i vantaggi, ma dal rischio di perdere il nostro «pezzetto di umanità» nell’utilizzarla. Il problema della macchina, infatti, è che «è impersonale, sottrae al pezzo di lavoro la sua fierezza, la sua individuale bontà e difettosità, ciò che rimane attaccato ad ogni lavoro non fatto a macchina». In questo modo non solo l’operaio andrà a produrre pezzi sempre più piccoli e a compiere lavorazioni sempre più specializzate a fronte di un risparmio di tempo e a un maggior guadagno, ma si arriverà alla condizione in cui egli si trasformerà nel pezzo stesso da lui prodotto: «La fabbrica regna. L’uomo diventa una vite». Anche qui non ho potuto far a meno di ripensare a tutte le volte in cui un candidato mi ha detto frasi come: “Ma sì, io dovevo solo premere un bottone e controllare che la macchina non si fermasse“. Dobbiamo dare importanza anche alle mansioni più generiche: anche se l’uomo preme solo un bottone è pur sempre un uomo a farlo. Ogni tanto, può far bene ricordarlo non solo a noi stessi ma anche al lavoratore, che non deve sentirsi mai svalutato o declassato.
Infine, l’aspetto forse più moderno in assoluto di questa riflessione nietzschiana è quello che riguarda il tempo. Nella società moderna «si pensa con l’orologio alla mano» e «si vive come uno che continuamente potrebbe farsi sfuggire qualche cosa». Il risultato è che diventiamo incapaci di assaporare con gusto la vita, proprio come quando a pranzo mangiamo una scatoletta di tonno al volo perché abbiamo poco tempo e la testa va già a quel che dovremo fare dopo.
Nota Nietzsche che in questa civiltà della fretta «tutti rassomigliano a quei viaggiatori, che fanno la conoscenza di paesi e di popoli dal treno». La cosa piuttosto inquietante è che questa frenesia non si limita soltanto all’orario lavorativo ma ha ormai pervaso qualsiasi ambito della nostra vita. Addirittura, anche il nostro tempo libero non è più autentico ozio, ma soltanto una pausa per ricaricare le energie in vista della fatica del lavoro. Le ferie servono al lavoratore per «abbandonarsi alla pigrizia e rincretinirsi e bambineggiare a proprio piacimento» ma non gli permettono un vero riposo. Nota infatti Nietzsche che «gli uomini moderni sono sempre stanchi» perché hanno disimparato a staccare davvero la spina, come diremmo ai giorni nostri. Starsene con le mani in mano diventa motivo di vergogna e così le «gite in campagna» diventano soltanto un «dovere verso la salute». Le domeniche risultano ormai noiose: si pensa già al lunedì, a cosa si dovrà fare tornati a lavoro, e ipocritamente si sacralizza questa noia, vedendo come un vanto il fatto di essere così dediti al proprio mestiere. Penso che tutto questo sia di una incredibile modernità, soprattutto se pensiamo a proposte quali l’accorciamento della settimana lavorativa o del monte ore settimanale.
Questa schizofrenia dei tempi non risparmia i più giovani, la cui formazione è sempre e solo finalizzata a trovare un impiego il più velocemente possibile e raramente a un autentico arricchimento: «Impera ovunque una fretta indecorosa, come se qualcosa andasse perduto qualora il giovanotto non avesse ancora finito a 23 anni e non sapesse ancora rispondere alla prima tra le domande: che professione?». Ricordiamoci, quindi, ogni volta che vediamo un diploma conseguito in sei anni o una laurea triennale in cinque, che questo non significa necessariamente scarsa determinazione o scarsa competenza. Cerchiamo sempre di scoprire in che modo il candidato è stato arricchito da quegli anni in più, magari da esperienze personali che lo hanno fortificato e reso più consapevole. Ricerchiamo quindi colui che, più che cercare freneticamente una professione, «conosce la propria vocazione», quei candidati che «non pensano affatto ad aver finito», che sono consapevoli che «a 30 anni si è, nel senso dell’alta cultura, un principiante, un fanciullo» e che non temono quindi di ammettere di avere ancora molto da imparare. Il pensiero non può non andare agli articoli delle ultime settimane, in cui vengono esaltati i laureati in tempi record, mentre la depressione dovuta all’emergenza sanitaria viene dipinta come una scelta dovuta alla pigrizia. Forse, a pensarci bene, sono proprio quelli che danno 12 esami all’anno a doverci preoccupare: che livello di approfondimento, di riflessione e di critica personale si può maturare nel preparare in tre anni un monte CFU che ne richiederebbe cinque? In questo tempo record il candidato sarà stato in grado di riflettere su se stesso, le proprie capacità, i propri punti di forza e di debolezza e sentire dentro di sé la vocazione oppure si sarà soltanto lasciato guidare dalla fretta di approdare a un posto di lavoro? È facile giudicare in base al voto di laurea e al tempo impiegato per conseguirla: sono cifre numeriche, scritte nere su bianco, incontrovertibili. Eppure, dietro quelle cifre sta molto di più e non dovremmo mai perdere la voglia di scoprirlo.
Bibliografia:
[1] Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano, Milano-Udine, Mimesis, 2013
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