Talento

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Sul Talento

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“Il talento è l’audacia, lo spirito libero, le idee ampie”.
(Anton Cechov)

di Giovanni Di Muoio

Avevo poco meno di 14 anni e non c’erano Smartphone, Play Station e nemmeno gli estrattori a freddo per preparare le centrifughe all’avocado e zenzero. C’era una TV, una di quelle massicce, la cui accensione richiedeva tempo e pazienza. Molte delle mie serate erano scandite dalle immagini barocche degli sceneggiati, gli antesignani delle fiction, vivevamo immersi nel passato e tutto sommato ci bastava perché il passato è tutto sommato rassicurante per il semplice fatto di averlo già vissuto. Nessuna ipotesi di futuro in quelle immagini come se fosse un argomento di cui non valeva la pena occuparsene. Sarebbe arrivato prima o poi ma non dovevamo farcene una malattia. Così vivevamo sospesi tra la saga dei Promessi Sposi e i racconti di Padre Brown, tra la Baronessa di Carini e la vita istrionica di Leopoldo Fregoli. Proprio con Fregoli, interpretato da un giovane Gigi Proietti, la mia curiosità fece una sorta di salto di qualità. Non era la storia a incuriosirmi ma il personaggio. La vita di un trasformista per vocazione capace di passare con disinvoltura da un personaggio all’altro cambiando ogni volta identità e adattandosi al contesto in maniera stupefacente. Fu attraverso quelle immagini che probabilmente compresi il vero significato del termine talento. Fino ad allora semplicemente non mi ero posto il problema. Pensavo fosse qualcosa che avesse a che fare con il calcio quando attraverso le cronache semiserie di Beppe Viola si enfatizzava la bellezza di un gesto, la poesia di certe geniali intuizioni, la fantasia che all’improvviso si accendeva nei piedi del fuoriclasse di turno e che cambiava il corso di una partita. L’analisi, seppur grossolana, di una figura come quella di Fregoli mi fece riconsiderare il significato di talento che io in maniera semplicistica associai a una non meglio precisata necessità di cambiamento. Avevo 14 anni, poche idee e molto confuse ma Fregoli mi lasciò qualcosa che solo a distanza di anni ho potuto comprendere con maggiore consapevolezza. Parto da una considerazione: il talento è difficile da misurare, un po’ come il ROI della Formazione. Difficile addirittura da catalogare in maniera puntuale perché c’è un margine di soggettività da parte di chi è chiamato ad esprimersi che può accentuarne la portata o derubricarlo a una buona execution. Quando affermiamo che quell’individuo ha un talento smisurato stiamo dicendo una quasi verità perché è palese il fatto di non poterlo quantificare e quindi misurare ma tutto sommato non se ne avverte nemmeno la necessità. L’importante è saperlo riconoscere in modo da poterlo canalizzare in modo produttivo. L’altro errore che spesso commettiamo è quello di associarlo a un ordine di grandezza imponente. Come se fosse qualcosa di maestoso e per questo difficile da ingabbiare in certi schemi precostituiti. In realtà il talento si osserva meglio nei piccoli gesti, in certi slanci creativi che nell’arco di qualche istante cambiano il nostro punto di vista rispetto alla realtà e quindi ci spingono a interrogarci sul senso. Il talento agisce quindi sul significato e non si limita all’execution che ne diventa una naturale conseguenza. Ai talentuosi non interessa raggiungere l’obiettivo ma di renderlo strutturale e quindi durevole essendo consapevoli che tutto questo confligge con il quotidiano, con questo galleggiare nella mediocrità di certe decisioni che hanno il sapore della sopravvivenza che è cosa diversa dal vivere.

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Una cosa l’abbiamo imparata e cioè che il talento non predilige i ruoli di comando, non li abita perché non li trova confortevoli, avverte un certo disagio quando realizza che il proprio operato non riesce a incidere sui comportamenti organizzativi. C’è in questa rappresentazione una certa idea romantica nell’essere considerato una persona di talento che si traduce nel tentativo ambizioso di consegnarsi alla storia cercando di essere ricordato non come colui che ha realizzato un progetto o portato a termine in maniera brillante un task ma come quello che ha contribuito a cambiare la cultura di quell’Azienda e che ha innescato un processo di trasformazione che magari altri porteranno avanti nel tempo. Un riconoscimento spesso tardivo, a volte post-mortem perché l’immersione nella banalità del quotidiano nasconde l’individuo alla gloria. A questo punto una domanda sorge spontanea: che percentuale di talento c’è nel Management delle nostre Aziende? O se vogliamo capovolgere il paradigma: quanti talenti arrivano a ricoprire ruoli Manageriali? Per rispondere a queste domande potremmo attingere a un vecchio trucco che spesso funziona e che in parte risponde al quesito e in egual misura lascia aperto il campo a una serie di interpretazioni. La risposta è: dipende, che potremmo definire sinonimo di incertezza o che lascia sottendere la presenza di alcune variabili. La parola dipende confligge con un’altra che oggi rappresenta un vero e proprio trend vale a dire “purpose”. Il talento anche quello che esprime al meglio la propria performance e che viene riconosciuto tale da un’Organizzazione non ha spesso le idee chiare del proprio “purpose” e questa che può sembrare una debolezza è invece la vera forza del talento. Non avere un obiettivo preciso ti consente oggi di non crearti aspettative seducenti che spesso vengono disattese per cui l’obiettivo, lo scopo, il “purpose” per dirla in gergo Aziendale, rappresenta un traguardo mobile che si adatta ai cambiamenti dell’Azienda. Il talento è per sua stessa natura resiliente. Muore e rinasce ogni giorno e per questo motivo il perimetro nel quale spesso finiamo per confinarli ha le pareti fragili. Si entra e si esce come da certi baretti di provincia che al posto delle porte hanno le tende in plastica con le frange e dove il caffè è ancora fermo a 0,70. Esiste quindi un tema Manageriale nella gestione del talento che si traduce spesso in un’assenza di Managerialità. Il talento è tale quando contribuisce più degli altri, in una dimensione quantitativa del fenomeno, al raggiungimento degli obiettivi della struttura. Questa semplificazione, negli anni, ne ha uccisi più dell’uranio impoverito. Associare il talento unicamente alla performance ha generato una serie di incomprensioni che hanno caratterizzato anche gli approcci spesso discordanti tra loro delle funzioni HR. L’idea che il Business abbia sempre ragione anche quando usa in maniera del tutto improduttiva, in un’ottica di lungo termine, il talento che per una congiunzione astrale si trova nel proprio perimetro, mi disturba profondamente. Questa continua rincorsa, questo affanno che caratterizza la funzione HR che svolge il proprio ruolo on demand e non in chiave predittiva, è una delle condizioni che non permettono la fioritura del talento e un’Organizzazione che non beneficia del contributo, soprattutto qualitativo, del talento non si mette nelle condizioni di coltivare il bello, quella che in Giappone, a proposito di fioritura, chiamano Hanami. Il problema è quindi l’utilizzo del talento nel momento in cui siamo in grado di riconoscerlo. Considerarlo patrimonio dell’Azienda e non di un singolo Manager già sarebbe un grande passo verso una maturità dichiarata ma quasi mai agita. E poi continuiamo a sbatterci per cercarli dentro le Organizzazioni o cercando di essere attrattivi per quelli che vorremmo assumere dall’esterno ma forse è davvero arrivato il momento di preoccuparci quando saranno loro ad accorgersi di noi e delle nostre contraddizioni. Considero talento colui che mi aiuta a pensare in maniera diversa e al quale affido un compito difficilissimo: sconfiggere le abitudini, tutte. Un evangelista del cambiamento capace di generare un irreversibile processo di trasformazione, uno capace di riconoscere quelle che Edgar Morin chiama le “complessità invisibili”.  Avevo 14 anni e quello sceneggiato in cui si ripercorreva la vita del più grande trasformista di tutti i tempi, l’Italiano Leopoldo Fregoli, lo ricordo ancora oggi come una scoperta. Mi rimase persino impressa la sigla di chiusura in cui un goliardico Gigi Proietti si lasciava andare a una considerazione amara che io trovo ancora oggi tremendamente attuale. Nel primo inciso la canzone recita testualmente:” Sono un po’ stanco di me, sempre la stessa vitaccia, qualche volta mi cambio la faccia ma la vita rimane com’è”. E’ la fotografia perfetta dell’insofferenza che anima l’uomo o la donna di talento. Questo continuo bisogno di mettersi in discussione per dare un senso (purpose) alla propria vita, cambiare per rimanere se stessi, che detta così può sembrare un ossimoro ma è l’esatta misura del fenomeno.  E in ultimo il palcoscenico. Nel 1976 Gigi Proietti coadiuvato dallo sceneggiatore Roberto Lerici mise in piedi, in tutta fretta, uno spettacolo dal titolo “A me gli occhi, please”. Bisognava coprire un buco nella programmazione del Teatro Tenda di Roma, una specie di circo in cui si faceva cultura mentre tutt’intorno si respirava l’odore di piombo di una stagione caratterizzata dalla lotta armata contro il potere. Proietti, il cui talento si andava affermando, scelse volutamente una scena minimalista. Un baule, uno specchio e la sua camicia bianca. Il cambiamento portato in scena che diventa modello di una società caratterizzata dalla paura e dall’immobilismo. E’ questa la vera forza di un talento e lo è ancora di più nelle Organizzazioni a condizione che lasciamo a lui la libertà di potersi esprimere.

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Giovanni Di Muoio
HR Business Partner presso BNL gruppo BNP PARIBAS
Giovanni Di Muoio, esperto di Narrazione d’Impresa, ha maturato una lunga e consolidata esperienza in ambito HR. Attualmente ricopre il ruolo di HR Business Partner in BNL ‒ Gruppo BNP Paribas, in precedenza ha lavorato in SIAE e come libero professionista. Ha collaborato con diverse testate su tematiche HR e ha pubblicato cinque libri di Narrativa. Specializzato in Short Stories ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività di scrittore

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