Smart working, telelavoro o lavoro agile- di cosa stiamo parlando e perché

 

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Smart working, telelavoro o lavoro agile: di cosa stiamo parlando e perché

di Simone Coren

L’evoluzione e la diffusione degli strumenti tecnologici modellano giorno dopo giorno i processi lavorativi, impattano in maniera più o meno forte sulla cultura aziendale ed evidenziano, sempre di più, come la natura del lavoro stia cambiando e come le aziende debbano ricercare una strategia organizzativa sempre più resiliente (cioè capace di fronteggiare adeguatamente le difficoltà e gli imprevisti) e competitiva.

L’introduzione di un approccio innovativo all’organizzazione del lavoro, che si caratterizza, da una parte, per la flessibilità e l’autonomia nella scelta degli spazi, degli orari di lavoro e degli strumenti da utilizzare, dall’altra, per una maggiore responsabilizzazione sui risultati, può rappresentare la chiave di svolta per garantirsi una maggiore efficacia ed efficienza, preservando i propri standard qualitativi e la propria competitività nazionale e/o internazionale (laddove possibile).

Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il numero dei lavoratori che godono di autonomia nella scelta delle modalità di lavoro in termini di luogo, di orario e di strumenti utilizzati sta aumentando nelle diverse nazioni europee.

Non c’è da sorprendersi, dunque, che le prime classificate siano proprio i Paesi Bassi e la Finlandia, nazioni economicamente e tecnologicamente molto avanzate. D’altra parte, non c’è da stupirsi della posizione dell’Italia, dove la flessibilità sulle modalità lavorative a distanza (smart o meno) non è proprio parte del DNA socioculturale italiano (vedi figura in basso).

Tuttavia, la recente emergenza legata al Coronavirus ha favorito (e sta favorendo) la diffusione del fenomeno dello smart working o lavoro agile, che permette di ridurre le probabilità di contagio senza causare ricadute pesanti sul proprio lavoro (se adeguatamente implementato). Però, il concetto di smart working resta ancora oggi fumoso per molti, perché è spesso considerato come sinonimo di telelavoro, come se il secondo fosse la traduzione italiana del primo. L’obiettivo di questo articolo è di fare più chiarezza su questi due fenomeni (sullo smart working e sul telelavoro, appunto) in base alle normative italiane vigenti (la Legge n. 81 del 22/05/2017 e l’Accordo interconfederale del 09/06/2004). Infine, è opportuno capire le implicazioni positive e negative del lavoro agile.

lavora abitualmente da casa

Fonte Eurostat 2018

Innanzitutto, che sia smart working o che sia telelavoro, questo discorso può riguardare solo una fetta di lavoratori: gli impiegati. Tuttavia, si deve apportare un’ulteriore precisazione: riguarda solo quegli impiegati che solitamente non ricoprono un ruolo front office con il pubblico.

È il caso ad esempio degli informatici, dei dirigenti, degli amministrativi, dei docenti, dei formatori previo accesso ai documenti aziendali da remoto e rispetto di alcune norme di buon senso (ad esempio, usare sistemi operativi e software supportati dall’organizzazione, usare un antivirus efficace, utilizzare esclusivamente la VPN, Virtual Private Network, fornita dall’azienda, non installare software provenienti da fonti non ufficiali o non necessari per l’attività lavorativa).

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La definizione di smart working

Lo smart working, o lavoro agile, è una nuova filosofia manageriale fondata sulla flessibilità e sull’autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Un nuovo approccio al modo di lavorare e di collaborare all’interno di un’azienda che si basa su quattro pilastri fondamentali: revisione della cultura organizzativa, flessibilità rispetto a orari e luoghi di lavoro, dotazione tecnologica e spazi fisici evoluti per supportare le differenti esigenze delle persone quando si recano in ufficio.

In altre parole, tre importanti elementi cardine dello smart working sono: Orario flessibile (1), senza una postazione fissa (2), prestazione per obiettivi (3).

La normativa italiana di riferimento è la Legge del 22/05/2017 n. 81 – in materia di misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e di misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato –  che fornisce una definizione di lavoro agile basata sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti (del lavoratore e dell’azienda) e sull’adozione di strumentazione tecnologica adeguata. In particolare, l’art. 18 specifica che il lavoro agile è una modalità lavorativa alternativa a quella tradizionale, ma pur sempre sottostante ad un rapporto di lavoro subordinato. Inoltre, indica che la prestazione lavorativa può esser eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Da un accordo tra dipendente e datore di lavoro, si delineano in forma scritta le fasi di lavoro, i cicli organizzativi da seguire e gli obiettivi da portare a termine, in modo tale da circoscrivere cosa ci si aspetta dal lavoratore e cosa gli si garantisce. Per fare questo però, è necessario che ci sia una gestione strategica delle risorse umane e tecnologiche, una cultura aziendale result based, capace di generare autonomia e responsabilità nelle persone, capace di riconoscere il merito dei risultati (e non più delle ore lavorate) e capace di sviluppare talento ed engagement verso l’innovazione, verso il cambiamento e verso l’azienda.

Infine, è importante che le persone possiedano un pacchetto di competenze digitali essenziali per trovarsi nelle condizioni migliori di svolgere il proprio lavoro anche da remoto.

Si parla di “prestazione per obiettivi”, cosa significa?

Gli obiettivi sono motivanti. Sono sfide da vincere. Ma ancor più importanti tolgono ambiguità su ciò che è richiesto. Ci sono molti modi per fissare e gestire gli obiettivi. I più usati sono:

  • Il MBO (o Management by objectives): è un approccio alla gestione degli obiettivi, introdotto nel 1954 da Peter Drucker, secondo cui il top management scompone un obiettivo in più parti, delega ognuna di essa ai rispettivi livelli più bassi in modo tale che i risultati richiesti siano concreti, a breve termine, chiari e semplici. Inoltre, si intende responsabilizzare tutti i livelli dell’organizzazione e massimizzare la loro partecipazione al raggiungimento di tali scopi. Un possibile svantaggio di questo sistema è la mancanza di attenzione sul lungo termine. Infatti, focalizzandosi sul breve termine, si guida l’azienda ad una visione molto ristretta del lavoro. Si vive troppo di attività ordinaria e non perseguono obiettivi strategici a lungo termine. Questa criticità è amplificata dall’instabilità del mercato, che impone alle aziende di utilizzare modelli di gestione che permettano di avere una visione a lungo raggio.
  • Lo SMART: secondo G.T. Doran, molte aziende non pongono attenzione alla definizione degli obiettivi. Tuttavia, progettandoli in modo confuso, non risultano efficaci. Per questo, lo studioso sostiene che un buon obiettivo deve essere S.M.A.R.T., ovvero:
  1. Specifico: è importante progettare obiettivi specifici, chiari e ben definiti;
  2. Misurabile: definendo un obiettivo misurabile, si ha la possibilità di conoscere in tempo reale la propria posizione rispetto a quanto pianificato;
  3. Achievable (o realizzabile) tenendo conto delle risorse e delle competenze disponibili. L’obiettivo deve essere stimolante, ma non irrealizzabile; in caso contrario, si rischierebbe un effetto opposto: la riduzione della motivazione;
  4. Realistico: gli obiettivi utopistici scollegati dalla realtà non devono esser presi in considerazione, poiché sconfortanti;
  5. Time Related (o basato sul tempo). È necessario che siano calati nella realtà temporale; ovvero, che vengano definiti gli step necessari per raggiungere un obiettivo associandone la data di scadenza e la priorità.
  • Il KPI (o Key Performance Indicator): una volta definiti gli obiettivi, risulta importante scegliere un insieme di indicatori che consentano di misurare le prestazioni di una specifica attività. Questi devono essere sia quantificabili sia misurabili, perché devono consentire di analizzare precisamente i progressi raggiunti. Pertanto, devono soddisfare i seguenti requisiti:
  1. Quantificabilità: devono essere presentati in termini numerici;
  2. Praticità: devono integrarsi con gli attuali processi aziendali;
  3. Direzionalità: devono contribuire al miglioramento delle performance dell’azienda;
  4. Operatività: devono essere calati nella realtà per misurare un cambiamento.
  • Il OKR (o objective and key-results): l’azienda definisce la propria mission (l’objective). Poi, vengono fissati gli obiettivi più piccoli e a breve termine (key-results) per i vari reparti dell’azienda stessa, in modo da permettere il raggiungimento dello scopo più grande. I key-results devono essere coerenti con l’obiettivo primario aziendale, devono essere trasparenti (cioè conosciuti da tutti) e rispecchiare l’idea di obiettivo S.M.A.R.T. Secondo questo approccio, il raggiungimento degli obiettivi al 100% non è né realistico né auspicabile. Il 70% è la consuetudine (in media). Tuttavia, l’intenzione organizzativa deve essere quella di motivare le persone a superare la soglia del 70% con programmi di formazione e con strategie di gestione delle risorse umane improntate sullo sviluppo e sul mantenimento del benessere.

La definizione di telelavoro

Secondo l’Accordo interconfederale del 09/06/2004 Il telelavoro costituisce una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale di tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta in maniera fissa al di fuori dei locali della stessa.

In altre parole, tre importanti elementi cardine del telelavoro sono: libero dall’orario (1), postazione fissa a casa (2), prestazione uguale a quelli in sede (3):

Al telelavoratore non si applicano le disposizioni relative alla disciplina in materia di riposo giornaliero, pause, lavoro notturno e durata massima dell’orario settimanale, in quanto la durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata, o può essere determinata dal dipendente stesso. Il contratto collettivo applicato o gli accordi individuali possono comunque regolamentare l’orario di lavoro del telelavoratore, conformandolo a quello dei dipendenti che svolgono attività nei locali dell’azienda, o prevedendo la reperibilità del telelavoratore in determinate fasce orarie.

A tal proposito, è interessante quanto riportato dall’art. 8 della circolare Inps n. 52 del 27 febbraio 2015, dove si indica che il lavoratore, seppur autonomo nella gestione del tempo lavorativo, deve esser reperibile in due periodi di un’ora nel corso della giornata (da concordare con il superiore) per mantenere i contatti lavorativi con i colleghi e i responsabili stessi (per chi ha un contratto di lavoro a tempo pieno. Un solo periodo di un’ora per chi ha un contratto part – time). Inoltre, si sottolinea quanto non esistano per questa modalità di lavoro straordinari (notturni o feriali) e permessi brevi (in ore). Tuttavia, rimangono ad esempio le ferie, le assenze per malattia, i permessi giornalieri.

Nell’ambito della legislazione, dei contratti collettivi e delle direttive aziendali applicabili, il carico di lavoro e i livelli di prestazione del telelavoratore devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali dell’impresa, obbligando il datore di lavoro a prevenire l’isolamento e garantire formazionee informazione.

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Le implicazioni positive di queste modalità di lavoro a distanza

Tendenzialmente nei lavoratori agili si evidenzia una maggior prestazione lavorativa a patto che ci sia responsabilità (è il dovere morale di assolvere i propri compiti, di rispettare i propri impegni lavorativi anche se non si ha il proprio capo nelle vicinanze), autodisciplina (è il darsi delle regole, è pianificare la propria giornata, investendo adeguato tempo al lavoro), flessibilità cognitiva (è la capacità di essere multitasking) e impegno al di fuori della sede lavorativa.

Certo è che la possibilità di non andare ogni giorno direttamente in azienda favorisce:

  • Una riduzione dei tempi e costi di trasferimento. Infatti, l’Osservatorio di Smart Working del Politecnico di Milano sottolinea che si può stimare, ad esempio, che il tempo medio risparmiato da uno Smart Workerper ogni giornata di lavoro da remoto sia di circa 60 minuti. Considerando che ciascuno faccia anche solo una giornata a settimana di lavoro da remoto il tempo risparmiato in un anno è dell’ordine di 40 ore per Smart Worker: un piccolo tesoro di tempo e vita che potrebbe essere utilmente reinvestito;
  • Un miglioramento dell’equilibrio vita personale – lavoro. Infatti, si ha la possibilità di gestire la quotidianità lavorativa in maniera più flessibile, riuscendo a dedicare più tempo a sé o alla propria famiglia, ma a patto che si riesca comunque a raggiungere i risultati lavorativi attesi. La parola chiave è pertanto: recupero. Quante volte non è possibile recuperare dalla fatica del giorno appena concluso, quante volte si esce di casa la mattina e si torna a casa la sera, sapendo che il tempo rimasto sarà investito solo nella cena e nel dormire?
  • Un aumento della motivazione (ad esempio, perché si è più autonomi nello svolgimento del proprio lavoro) e della soddisfazione.

Lo smart working, inoltre, consente di produrre benefici misurabili anche per l’ambiente ad esempio in termini di:

  • riduzione delle emissioni di CO2;
  • riduzione del traffico;
  • migliore utilizzo dei trasporti pubblici.

L’Osservatorio di Smart Working del Politecnico di Milano sottolinea che, considerando che in media le persone percorrono circa 40 chilometri per recarsi al lavoro, sempre nell’ipotesi di un giorno a settimana di lavoro da remoto, si potrebbe ottenere un risparmio in termini di emissioni per persona pari a 135 kg CO2 all’anno.

Le implicazioni negative di queste modalità di lavoro a distanza

Sia che sia telelavoro sia che sia smart working, c’è bisogno di concentrazione, di impegno e di precisione quando si lavora, perché, qualsiasi sia la posizione che si ricopre, ciò che si chiede è tendenzialmente sempre lo stesso: responsabilità nello svolgimento dei propri compiti, efficacia ed efficienza.

Tuttavia, è difficile rispettare queste premesse nel caso del telelavoro, dove la casa rappresenta l’unica postazione lavorativa e le distrazioni potrebbero essere molte (dai familiari, ai vicini, ai parenti in visita e alle notifiche dello smartphone). Inoltre, se nello smart working teoricamente non si ha una postazione fissa e quindi si ha la possibilità di uscire di casa e scegliere dove lavorare, nel caso del telelavoro la casa diventa anche sede di lavoro, non permettendo più la distinzione (culturalmente tramandata nel corso delle generazioni) tra lavoro – azienda e casa – famiglia. Infine, non si può trascurare quanto andare al lavoro, entrare in ufficio, comunicare con il proprio capo e con i propri colleghi siano aspetti importanti della propria vita, perché il lavoro non è solo conseguire risultati, ma è anche socialità, pausa caffè, andare in mensa con i collaboratori.

Quante volte vi è capitato che qualche collega portasse in ufficio i pasticcini per il suo compleanno? Quante volte avete aiutato un/a vostro/a collega di fronte ad un problema familiare, di amicizia oppure di lavoro? Quante volte avete riso in pausa con i vostri/e colleghi/e? Queste sono occasioni uniche, che a casa in telelavoro, o al di fuori della sede in smart working, sono più rare. In altre parole, non è per tutti e non è con tutti che queste nuove modalità lavorative possono risultare efficaci.

Infine, è opportuno ben chiarire che ciò che si sta vivendo dal punto di vista lavorativo all’interno di questa cornice di emergenza sanitaria, è più telelavoro che smart working. Lavorare a casa non è smart solo perché si utilizza il computer, si usa l’e-mail aziendale e si rimane in contatto con i colleghi.

Adottare una politica smart è come scegliere di “sposare” una determinata filosofia di vita. O ci credi o no. Nel primo caso, può funzionare, incentivando miglioramenti, risultati e maggior soddisfazione. Nel secondo caso, non può funzionare, incrementa la fatica, lo strain e la percezione di isolamento.

 

Questo articolo è offerto da:

Simone Coren
Studente magistrale di psicologia del lavoro
Dopo essermi laureato in Psicologia all'Università di Padova (2018), ho intrapreso la magistrale in Psicologia sociale, del lavoro e della comunicazione. Osservo e ascolto chi è più competente e più esperto di me per crescere, consapevole di non sapere mai abbastanza. Inoltre, scrivo per diletto su ciò che vivo e cerco di riflettere in maniera critica sui cambiamenti del lavoro e sull'importanza della Psicologia all'interno delle organizzazioni.

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