Abbiamo tutti ragione… e tutti torto
Engagement, un obiettivo manageriale o il solito miraggio della consulenza “à la page”?
Raramente incontro “capi” che si dicano pienamente soddisfatti della loro gestione delle risorse umane. Pochi di loro, infatti, non hanno di che lamentarsi nei confronti di qualcosa o di qualcuno.
È vero, ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Questo è un dato di fatto. Tutti noi, poi, abbiamo sempre qualche motivo (talvolta legittimo) per sostenere ed alimentare criticismi e malcontenti. Ma il problema davvero cornuto emerge in tutta la sua diabolicità quando vittimismo e biasimo diventano costume e riflesso incondizionati e assumono così le forme di un teatro dell’assurdo. La ricerca affannosa dell’alibi assomiglia allora più ad un rantolo. Questa ricerca, oltre tutto, comporta una capitalizzazione di tempo e di energie da fare impallidire un hedge fund. Ciò vale per chiunque, tanto per i dipendenti quanto per il management.
Se questo allora è lo stato dell’arte, l’engagement diventa sempre di più il fattore cruciale e dirimente per ogni azienda, piccola o grande che sia. Un’impresa che annoveri nel proprio organico persone de-motivate o scarsamente coinvolte, è un’impresa destinata ad avere seri problemi, per usare un eufemismo. Oggi più che mai. Oggi come non mai. Il corto-circuito organizzativo è sempre in agguato e la faccenda quindi va affrontata. Subito.
Engagement significa più redditività. Perché? Perché un’organizzazione dove le persone traggono più soddisfazione dal loro lavoro e quindi da sé stesse è un’organizzazione che ha un vantaggio competitivo unico. Vuol dire un management che sa dare voce ai dipendenti, che raccoglie le loro idee e sa coinvolgerli con cura e intelligenza (emotiva). Significa quindi motivazione. Quando le persone sono più soddisfatte, sono più soddisfatti anche i clienti. Non trovate? Ecco allora l’innesco di un circolo virtuoso.
Il tema non può che investire trasversalmente tutta l’azienda, a cominciare proprio da chi la governa. Molti dirigenti mi dicono: “si, certo, quello che lei dice è importante, ma io devo far quadrare i conti ogni trimestre…” “Molto bene”, gli rispondo, “ma si ricordi che i conti della sua azienda sono il risultato del governo della sua azienda, a cominciare proprio dalla motivazione e dal coinvolgimento dei suoi collaboratori.” Se il management è miope e non è il primo ad essere “coinvolto e coinvolgente”, con quale coraggio può pretendere che lo siano gli altri? Sarebbe dunque questo l’esempio? Allo stesso modo, laddove sia invece il collaboratore a recalcitrare di fronte alle criticità o alla presa in carico dei risultati, ci troveremmo di fronte al medesimo problema.
Il retaggio della recriminazione a tutti costi è il peggior nemico delle nostre aziende. È il costo più gravoso, il più occulto e quello più vizioso (o viziato…)
Per quale motivo è così difficile coltivare l’engagement in azienda? Forse perché prima di tutto insistiamo col pretendere dagli altri ciò che (molto spesso) dispensiamo a noi stessi.
Il sostantivo che meglio sintetizza e spiega l’engagement è coerenza. “Fai quello che dici” è l’iscrizione sul suo scudo gentilizio. La coerenza è una virtù manageriale che definisce in prima battuta il “bravo comandante in capo” e in egual misura ci distingue dai soliti glossatori del problema.
Di contro, l’incoerenza è il principale fattore del cosiddetto disengagement, cioè della demotivazione (intrinseca). Passandole brevemente in rassegna, ecco un breve elenco di altre voci, non meno importanti, che causano il fenomeno del disengagment organizzativo:
- incapacità di comunicare
- scarsa qualità della comunicazione e della relazione
- relazioni capo/collaboratore soltanto di natura gerarchica
- nessuna meritocrazia
- aggressività varia
- politica diffusa della “caccia alle streghe”
- etichette, pregiudizi, stereotipi, etc.
- incapacità di ascoltare
- incapacità di chiedere “tu cosa ne pensi?”
- poca, pochissima fiducia
- poche deleghe “reali”
- rimproveri e critiche maldestri
- esclusiva pressione per i risultati
- eccetera eccetera.
Mi fermo qui. L’intero elenco sarebbe eccessivamente lungo e penoso.
Prima dei numeri e prima dei risultati, dovremmo apprendere l’arte di gestire meglio noi stessi e quella di metterci la faccia quando serve, assumendoci le responsabilità relativamente al ruolo e alle funzioni organizzative che ci sono proprie e che ci sono date e guardare ai nostri comportamenti, anche i più semplici, come espressioni della nostra mentalità organizzativa.
La cultura del lavoro (l’engagement) non può essere né un protocollo né avere l’immediatezza e la staticità di un organigramma e tanto meno essere, come invece potrebbe sembrare, una metodologia pret-à-porter lanciata dalla pubblicistica manageriale. Ma proprio per questi motivi è fondamentale darle la rilevanza e la priorità che merita e nobilitarla con tutta la determinazione possibile. Senza perdere tempo. Altrimenti – perché c’è sempre un altrimenti – finiremmo per sprofondare nel solito paradosso e ripeterci, more solito, che abbiamo tutti ragione… e tutti torto.
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