Quando parlo di sicurezza, si capisce cosa dico?
“Cosa? Un altro corso sulla sicurezza? Oh no!”
Questa è, molto spesso purtroppo, la reazione delle persone quando vengono invitate ad un corso sulla sicurezza.
Eppure, cosa ci sarebbe di meglio se non occuparsi della propria incolumità?
Credo, dopo aver erogato decine di corsi di Sicurezza Comportamentale, che l’incomprensione iniziale sia proprio qui, fra gli obblighi normativi da un lato e la salvaguardia del singolo dall’altro.
Da una parte il responsabile aziendale della sicurezza ha l’impegno quotidiano all’aggiornamento, la necessaria compilazione di moduli e l’obbligo al rispetto di procedure articolate dovendone dare evidenza riducendo fortemente il tempo utile per andare sul campo.
Così si allontana sempre di più dall’attività produttiva e viene vissuto dai colleghi come un controllore severo e distaccato.
Dall’altra i lavoratori perdono il concetto di sicurezza intesa come attenzione e prevenzione e la vivono solo come una ulteriore disposizione calata dall’alto che gli fa perdere del tempo.
- Tutto questo porta ad una riduzione del numero degli incidenti?
- Riduce lo stress?
- Migliora le relazioni interpersonali all’interno dell’azienda?
- Trasforma la sicurezza in un valore condiviso?
- Semplifica le relazioni con il mondo esterno?
- Ma, soprattutto, sensibilizzare il singolo ad avere maggiore attenzione per se e per gli altri?
Temo proprio di no.
Che cosa si può fare quindi?
Occorre, a mio avviso, integrare quelli che sono i pur necessari corsi tecnici (in quanto razionali si rivolgono alla “testa” delle persone) con dei corsi comportamentali (che, in quanto emotivi, si rivolgono alla “pancia” delle persone).
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A volte alcuni lavoratori vivono il proprio lavoro come un’attività di scarso valore o a cui è dato scarso valore.
Questa percezione – stiamo sempre parlando in maniera molto generica e generalista – si trasferisce poi all’attenzione e alla cura di sé stessi.
Un po’ come se, facendo un lavoro che non si considera importante, si finisse con non considerare importanti neanche se stessi.
In una situazione del genere, attechiscono, con grande facilità, i luoghi comuni più pericolosi che vanno dal: “Si è sempre fatto così” al: “Sono trent’anni che faccio questo lavoro e non è mai successo niente” al peggiore di tutti che è: “Facciamo meno corsi e lavoriamo di più”.
Questa scarsa attenzione si trasferisce al mancato uso dei dispositivi di protezione individuale quasi come se indossarli fosse più un favore verso l’azienda che una tutela verso se stessi.
E poi la Sicurezza viene vissuta come un elemento a se stante (proprio come avviene per l’Ambiente, la Salute, la Qualità, la Produzione).
La Sicurezza, invece, dovrebbe essere correttamente individuata come uno degli elementi che compongono la migliore qualità della vita del singolo offrendo opportunità di sopravvivenza e crescita dell’intera azienda.
Purtroppo questo è considerato ancora un punto di vista del tutto innovativo. E non è ancora stato messo a sistema all’interno delle imprese.
Senza considerare un altro vantaggio di una corretta formazione, che è quello del dialogo costante con i propri interlocutori (stakeholder) che, per molte realtà industriali e produttive, sta diventando indispensabile e obbligatorio.
Il proprio personale è il primo interlocutore ed è anche il primo e più credibile portavoce aziendale.
Considerare la sicurezza come un valore vuol dire avere delle ottime opportunità per costruire dei ponti che colleghino l’azienda al proprio territorio di riferimento.
Va da sé che il personale – soprattutto quando si parla di Sicurezza – necessiti di buoni esempi aziendali.
Nella mia esperienza posso dire che quando le persone entrano in aula sapendo che parteciperanno un corso sulla sicurezza hanno spesso l’atteggiamento che dicevamo all’inizio.
Basta però dire che non parleremo di nessuna norma, di nessuna legge, perché già i volti si distendano.
È necessario rendere edotti i collaboratori sulle norme, le procedure, e gli obblighi di legge aziendali e personali, ma è altrettanto vero che occorre un diverso approccio per l’attivazione dei comportamenti personali.
Affrontando il tema sicurezza da un punto di vista più globale – dove non c’è un confine tra quello che si fa in azienda e quello che si fa casa, fra come ci si comporta con i propri amici e come ci si comporta con i propri colleghi – la sicurezza si trasforma in opportunità per migliorare la propria vita e il proprio benessere.
L’obiettivo è quello di stimolare un desiderio propositivo e continuo di dedicarsi alla sicurezza personale e altrui quasi come fosse una missione o un bel gioco da condividere.
La chiave di volta credo stia nel richiamare l’attenzione sui vantaggi personali.
Ciascuno, infatti, presta la sua la propria opera a fronte di una remunerazione che gli serve per avere una qualità della vita soddisfacente.
Tutto questo se si va a lavorare tutti interi ritornando a casa tutti interi.
Per questo motivo trovo molto efficace generare delle riflessioni partendo proprio dal mettere in crisi gli schemi comportamentali ormai acquisiti.
Provate a immaginare cosa succede quando in aula si sente affermare con molta convinzione che mettere il casco in testa non serve a nulla.
Quale sarebbe la vostra prima reazione?
Lo scopo è quello di attrarre l’attenzione di tutti presenti e far loro comprendere che niente di quello che succederà nel corso della giornata potrà essere dato per scontato.
Mettere il casco in testa non serve a nulla perché si tratta di un gesto meccanico. Non c’è la partecipazione emotiva attiva.
Decisamente molto meglio se, invece, si mette la testa nel casco! Di fronte a questa affermazione i presenti annuiscono cominciando a sorridere.
Questo dovrebbe essere il vero valore del comunicare la sicurezza.
Comprendere, cioè, che ogni nostro singolo comportamento può influenzare la nostra e la altrui salute, integrità fisica e persino la vita.
Dipende da quanto siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo.