Welfare: Dignità morale ed economica del lavoratore?
Fidelizzazione e riconoscimento del valore delle persone, sono gli obiettivi che si pone il welfare Aziendale, al fine di surrogare i livelli di tutela e protezione del proprio personale, che invece dovrebbero essere garantiti dallo Stato.
La base del welfare è non solo il contratto giuridico che esiste e che trova il suo riferimento normativo nell’art. 2094 c.c., ma soprattutto il contratto psicologico, patto spesso implicito che lega l’individuo all’Azienda.
Il dipendente non può essere solo considerato un “cliente interno”, su cui imporre un’organizzazione arrogante e conflittuale, perché dietro processi organizzativi, Contrattazione Nazionale e decentrata, regolamenti Aziendali, ci sono persone con valori, motivazioni e competenze.
Nel 2017, l’armonia tra capitale e lavoro, non può essere perseguita utilizzando una netta separazione del lavoro dal lavoratore, sulla scia delle ormai vetuste definizioni dell’aristocratico Platone ne “La Repubblica” o utilizzando il sistema dell’organizzazione tayloristica del lavoro.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, fu il buono pasto di derivazione anglosassone, ad avvicinare il lavoratore all’Azienda.
In Italia la pionieristica visione di una creazione organica di un sistema di servizi sociali inaugurata negli anni ’50 da Olivetti ha profondamente caratterizzato la storia industriale, fino ad arrivare agli interventi di welfare del colosso dell’occhialeria Luxottica a partire dal 2009 e agli esempi tangibili di nuovo umanesimo di Cucinelli.
Interventi che vanno oltre i benefit Aziendali, rivolti al solo personale che ricopre posizioni di maggior rilievo, esclusi dall’imponibile fiscale e dagli imponibili contributivi previdenziali (uso autovetture; cellulare e portatile aziendale; alloggi per abitazione; buoni benzina; abbonamenti a club; polizze).
Un’azienda virtuosa ed attenta alle proprie RISORSE, che integra con concretezza e professionalità il sistema dei servizi, con un impegno costante teso a realizzare un moderno modo di vivere l’impresa, creando un nesso giuridico e psicologico di azione ed obiettivi, trova davvero una delle sua componenti nel welfare?
Il senso di appartenenza di un lavoratore, che passa per il superamento del principio di cassa allargato ed il principio di onnicomprensività (art. 51 Tuir) può essere inteso dall’Azienda come un extra-valore?
La filosofia che ispira la visione del welfare Aziendale, è tesa ad alimentare la dinamicità del mercato del lavoro e ad anticipare le carenze ed i tempi di uno – statico e stanco – welfare pubblico, che risulta insufficiente per tutelare l’intera vita lavorativa di un dipendente.
Tuttavia i passaggi necessari per raggiungere e razionalizzare buone, se non ottime misure di welfare, passano per un’attenta analisi socio demografica del personale, al fine di evitare che l’incidenza di fattori quali: età, sesso e reddito, possano influire negativamente sugli interventi approntati.
Ma nel 2017 le imprese italiane sono pronte ad investire su tali interventi?
Davvero gli sviluppi futuri sembrano andare verso una maggiore sinergia tra il pubblico ed il privato, in un’ottica di esauriente risposta alle necessità dei lavoratori?
Innanzitutto è bene sottolineare, le difficoltà in cui verserebbero le piccole e medie aziende (non strutturate), che già evitano di dover sostenere un sistema contrattuale binario e di dover fronteggiare i momenti legati alla tensione di una contrattazione di secondo livello; applicando una scarna disciplina contrattuale e disciplinando unilateralmente i rapporti di lavoro.
Non rari sono i casi di Regolamenti Aziendali e Ordini di servizio che sostituendosi tout court alla contrattazione di secondo livello, sfruttano il più possibile vuoti normativi e disciplinari lasciati dai CCNL, per ritagliarsi sempre più un ruolo ad hoc nel rapporto di lavoro.
Circa il 68% delle Aziende Italiane coltiva atteggiamenti quasi militareschi e di chiusura nei confronti dei propri dipendenti, dove il ruolo degli HR e di tutto il Management Aziendale non è equilibrato e trasparente ed è volto ad incidere negativamente ed in maniera continua sul benessere dei propri dipendenti.
Ostilità, chiusura ed aggressione portano ad una errata interpretazione del ruolo dei lavoratori in un mercato in cui:
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«l’innalzamento dell’età dei lavoratori è uno degli ostacoli all’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro»; come dichiarato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti
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le pari opportunità vedono ancora la donna uscire dal mercato del lavoro quando nasce un bambino, per impossibilità di conciliare i tempi vita-lavoro o per mobbing strategico da parte dell’Azienda;
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si rilevano tassi di disoccupazione e numero di lavoratori in nero, ancora troppo elevati;
Investire nel welfare, costituisce per l’Azienda un impegno chiave al fine di raggiungere standard internazionali di virtuosismo, valutati e riconosciuti con attenzione nei diversi settori del mondo del lavoro; iniziative che sono sempre più oggetto di interventi che fanno leva sull’aspetto fiscale e introducono nuove forme di detassazione, come previsto dall’ultima legge di stabilità.
Non posso che chiedermi, se le misure di welfare perseguite – al momento, solo in realtà solide e strutturate – possono davvero ridare dignità morale ed “economica” a tutti quei lavoratori che percepiscono la propria “stabilità” lavorativa come una chimera e non come un punto di partenza.
Il concetto reale di stabilità lavorativa, non esclude il concetto teorico di flessibilità lavorativa, che implicitamente vorrebbe invece esaltare, ma sicuramente non deve degenerare nel concetto più incerto di precariato.